un sito di notizie, fatto dai commentatori

ISIS tra finanziamenti, consenso, religione e bufale

8 commenti

Su suggerimento di @Chtulu, @alessandromeis, @yoghi, @_smoothschiattiglia e @Francisco Quintay.

Continuano le segnalazioni sull’ISIS, stavolta però i punti di vista sono diversi e difficilmente riconducibili ad un unico filo conduttore: sintomo anche di un discorso che sta andando avanti e sviluppandosi sempre più.

Da un lato si guarda ai finanziamenti dell’ISIS e al rapporto tra i paesi occidentali e non con l’organizzazione jihadista: il tentativo di eliminarla non può infatti non passare per una comprensione dei fattori che ne permettono la sopravvivenza. Quali sono quindi le sue fonti di introito? Petrolio, sequestri, vendita di opere d’arte, estorsioni, finanziamenti esterni; in quest’articolo de Linkiesta, si cerca di capire quali sono gli introiti di maggior peso nell’ISIS.

 Come ha scritto la Brookings Institution nell’analisi “Cutting off Isis’ cash flow” (Tagliare la liquidità all’Isis), «lo Stato Islamico è l’organizzazione terroristica meglio finanziata che abbiamo combattuto» e «non c’è una pallottola d’argento o arma segreta per svuotare i forzieri dell’Isis in una notte».

Un altro elemento di sopravvivenza è quello dell’arruolamento di persone, del consenso che si forma intorno al gruppo estremista. Ne abbiamo parlato stamattina, ma quest’articolo del New York Times dà un’analisi meno psicologica e più concentrata sulla strategia del consenso (non a caso si cita Neumann), innestando il discorso sulle differenze tra Al Qaeda e ISIS, e sull’attacco a Parigi e in Mali.

The approach is what Peter Neumann, a professor at King’s College London and director of its International Center for the Study of Radicalization, called “the propaganda of the deed” — a kind of violence as performance that was also used by 19th-century anarchists.
The goal, he said, is “to inspire overreaction, inspiration and retaliation” — to provoke violence from governments that radicalizes more people and deepens the pool of recruits.

La questione, dunque, non rimane solo religiosa ed è quello che afferma Tondelli, con un paragone che ci fa tornare indietro di qualche secolo: circa nel 300, all’epoca di San Dasio. Facendo questo si può astrarre dal significato delle parole, forse inutili tra qualche secolo (o forse uguali, ma con significato diverso) e in questo modo Tondelli si domanda cosa c’è oltre alla parola “Islam”.

Tutto lì il problema, in fondo: cioè, anche ammesso che il problema sia “Islam”, che si fa? Ogni volta che rivolgerai questa domanda al fallaciano di turno, lui butterà la palla in tribuna. Se davvero il problema è l’Islam, coerenza vorrebbe che rispondessimo con una Crociata; si sa come funziona, c’è vasta letteratura sull’argomento. Bisogna scannarne molti e provare a convertire gli altri: è molto costoso e… non funziona mai (ci abbiamo provato una dozzina di volte). E quindi? Dietro a tutta la Rabbia e tutto l’Orgoglio c’è una sorda sensazione di Impotenza.

Oltre al sentimento di impotenza, alla ricerca di una comprensione degli accadimenti, c’è il semplice “click” alla notizia: le bufale. Ora cronobufale: come la notizia miracolosamente ricomparsa della strage in Kenya da parte di Al Shabab, 48 ore dopo gli attacchi a Parigi (una notizia dell’aprile scorso).

È un nuovo fronte nella battaglia contro il morboso sodalizio tra giornalismo e viralità, in cui la categoria di bufala (notizia inventata e data per vera) si incastra tra le pieghe dello spaziotempo, creando notizie vere in piani temporali errati. Cronobufale. Gli effetti del fenomento, registrato per la prima volta in massa da domenica, hanno del perturbante: ai razzisti fa comodo per i loro status razzisti; altri si fidano e piombano in un terrore ancora più profondo di quello parigino; i velleitari possono scrivere “perché non pensate anche all’Africa, eh!?”, autodenunciandosi come persone che non badano più di troppo all’Africa; qualche complottista trova nuovo materiale da scandagliare alla ricerca di “errori” compiuti dagli Illuminati o chi per loro abbia “inventato” anche questa tragedia.

Infine, è sia per ricordare la strage in Mali – così presto dimenticata – sia per ritornare sulla figura del jihadista, che si inserisce qui l’articolo di Rivista Studio sul film Timbuktu, film che racconta i due anni di occupazione salafita in Mali.

Il regista non pretende di farci vedere il momento esatto in cui uomini all’apparenza normali, con i quali avevamo persino riso, si trasformano in carnefici. Ci sono molti primi piani sui jihadisti imbarazzati nelle scene accennate sopra, nessuno mentre frustano o lanciano le pietre (ci vengono mostrate le vittime però, in modo asciutto e brutale). Lo scatto da parte non voluta della società a spietati esecutori ci viene risparmiato forse per eleganza, forse per onestà narrativa.

Immagine di Erwin Lux CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons


Commenta qui sotto e segui le linee guida del sito.