Su suggerimento e a cura di @i.c.e.
Sostenuto dai suoi attivisti, Jeremy Corbyn ha da poco assunto il comando del Labour dopo la disfatta alle ultime General Elections, e ha impresso al partito una vigorosa sterzata a sinistra: abbandono del deterrente nucleare, nazionalizzazioni e alta tassazione per il ceto medio sono il nucleo della sua proposta politica.
Con il dibattito su quella che deve essere la risposta occidentale agli attentati di Parigi il Labour è però precipitato in un caotico conflitto tra il pacifismo di Corbyn e l’interventismo di una grossa fetta del suo stesso partito. Questo conflitto è esacerbato dal fatto che gli attivisti che hanno portato Corbyn alla leadership, sono comunque una minoranza dell’elettorato, e secondo molti commentatori questo porterà ad ulteriori sconfitte per il Labour.
Questi fatti portano però a considerazioni molto più generali su cosa voglia dire essere progressisti (o “di sinistra”) in questo momento, e coprono la seconda parte (di gran lunga la più interessante) dell’articolo: se fino ad alcuni anni fa era possibile riunire sotto lo stesso tetto “idealisti” che sposano cause nobili e “pragmatisti” che vincono le elezioni, questo sembra essere oggi molto più difficile.
“I see it as evidence of two deep cleavages in British and Western politics. The first is the gulf between instrumental and expressive politics. The former involves winning elections in order to wield power and change things. The latter involves seeking fulfilment and personal satisfaction by interacting with symbols, attending events, declaring positions—in short, signalling things about oneself. With the decline of mass classes and monolithic ideologies it has become increasingly hard to combine the two sorts of politics. […] The Labour leader’s defining trait […] is that he has no interest in general elections, opinion polls or indeed the views of any Briton outside a crowd of supportive activists and campaigners so small as to be electorally insignificant.”
Immagine da Wikimedia Commons
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