Su Doppiozero, la recensione, a firma di Marine Aubry-Morici, di Alla linea, l’unico romanzo del compianto scrittore francese Joseph Ponthus, dal settembre scorso nelle nostre librerie.
Esordio di Joseph Ponthus (pseudonimo di Baptiste Cornet, 1978-2021), questo libro destinato a rimanere, per la sua tragica e prematura scomparsa, e salvo ritrovamenti postumi, l’unico dell’autore, può essere definito come una meteorite luminosa nel cielo della letteratura francese dell’estremo contemporaneo.
La linea è la catena di montaggio e Ponthus racconta il lavoro in fabbrica dal punto di vista di chi quel lavoro lo svolge ogni giorno.
In Alla linea, sottotitolato quindi Fogli di fabbrica, Joseph Ponthus racconta il suo quotidiano in una fabbrica di gamberi, poi di bastoncini di pesce e di tofu, e infine in un mattatoio.
Il libro descrive anche un’altra linea, quella che unisce esseri umani di tutto il pianeta, dal terzo mondo che fornisce la materia prima, ai lavoratori in fabbrica in Francia, ai consumatori finali.
Il lettore viene così messo di fronte alle sue responsabilità: è lui, in quanto consumatore, ad essere l’invisibile perno della fabbrica in cui non ha mai messo piede. E Ponthus gliela restituisce sotto forma di poesia, cioè di visione inedita e folgorante, quando evoca le terre lontane e esotiche, cioè i diversi paesi da dove provengono i gamberi che arrivano congelati e già sgusciati (da chi, chiede, e quale vita c’è dietro queste mani invisibili?), mentre lui ha per compito di organizzarli in una composizione quasi floreale, una poetica «corona di gamberetti da aperitivo», destinata a addobbare la tavola di qualche intérieur borghese il tempo di un apericena. Altra linea quella che unisce le mani di esseri umani di tutto il pianeta: schiavi del terzo mondo, lavoratori della fabbrica bretone, consumatori occidentali, ignari di fare parte tutti di una stessa catena.
Secondo Marine Aubry-Morici la vicinanza al tema è la vera forza di questo autore, che abbatte la barriera tra chi lavora e chi narra l’esperienza del lavoratore.
Come raccontò Ponthus in numerose interviste, quando doveva tagliare code di mucche con un immenso coltello per otto ore al giorno, era l’immagine di Athos, il moschettiere di Dumas che veniva a aiutarlo per compiere il tremendo lavoro. Se deve essere alienante l’esperienza di una fabbrica, tanto vale che ci proietti nella dimensione senza tempo e nobile del guerriero consegnata dal mito e dalla letteratura. Ed è questa la forza di Ponthus, provare a creare uno spazio dove non c’è più distinzione tra chi lavora e chi scrive sui lavoratori, dove crolla il divario tra il reale e chi ne scrive, dove non si cerca più di afferrare a stento con la penna un reale che continua la sua vita con il martello.
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