A cura di @NedCuttle21(Ulm).
In un articolo pubblicato su Internazionale, Christian Raimo riflette sulla figura di Giacomo Matteotti, l’inflessibile deputato socialista di Fratta Polesine rapito e trucidato a Roma da un gruppo di criminali fascisti nel pomeriggio del 10 giugno 1924.
Ogni giorno migliaia di macchine a Roma si bloccano in un punto del lungotevere Arnaldo da Brescia, all’altezza della curva da cui poi si prende la salita del Muro Torto. Lì c’è un semaforo in cui puntualmente si crea un piccolo imbuto: molti automobilisti superano a destra per scavalcare la fila, le altre macchine suonano, rischiano ogni volta di tamponarsi. A tre metri da quel semaforo c’è un monumento in bronzo composto da una stele sinuosa e da una composizione informale. Somiglia a un gruppo di uomini stilizzati che urlano tra le fiamme. È la scultura che nel 1974 Jorio Vivarelli realizzò per il cinquantesimo anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Il punto dove venne collocata si trova poco distante dal luogo dove Matteotti il 10 giugno 1924, poco dopo le 16, venne sequestrato da un gruppo di sicari legati al fascismo – Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo – e caricato a forza su una Lancia Lambda.
Sono passato anche io centinaia di volta davanti al monumento a Matteotti senza fermarmi, né ci ho visto mai nessuno; ed è più probabile trovare bottiglie rotte e cartacce che fiori o biglietti accanto alle cinque piccole lapidi di commemorazione, una persino del Psdi.
Immagine: Giacomo Matteotti nell’ultima foto prima dell’omicidio
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