A cura di @kastellorizzo.
Mario Martone è a teatro con un adattamento della Morte di Danton di Georg Büchner; fra gli interpreti: Giuseppe Battiston (nel ruolo di Georges Danton), Paolo Pierobon (Robespierre), Iaia Forte (Julie, moglie di Danton). In prima nazionale questi giorni allo Stabile di Torino, sarà in scena nei prossimi mesi in molte città d’Italia: da Milano a Roma passando per Firenze e Napoli.
Su MinimaetMoralia, Alessandro Leogrande ragiona intorno al dramma di Büchner e i suoi due temi portanti: il fallimento della Rivoluzione da una parte;
Morte di Danton non è solo un dramma che scandaglia la fase più cruenta del Terrore. È la pietra di paragone della dissipazione di tante altre rivoluzioni, specie novecentesche, a cominciare dall’altra grande Rivoluzione, quella russa.
e lo scontro fra dimensione privata e politica dall’altra, quando tutto è politica:
Büchner non descrive solo il vicolo cieco della politica del terrore, nata dalla necessità di difendersi dagli assalti della reazione, e poi degenerata per l’assenza di qualsiasi contrappeso o autocritica interni. Descrive qualcosa di più complesso: il paradosso che nasce, in alcuni frangenti storici, dall’eccesso di politica, quell’eccesso che finisce per sottomettere ogni angolo della sfera privata, anche il più intimo, al sogno di modellare un mondo e un uomo nuovi.
Non limitandosi pero alla Rivoluzione Russa, Leogrande cerca di estendere il discorso alle più recenti primavere arabe.
Venendo al XXI secolo, non è difficile intravedere la stessa dinamica rivoluzione-terrore-controrivoluzione nel fallimento delle primavere arabe che si sono susseguite dal Maghreb al Medio Oriente. Lo spiega, e potrebbero citarsi anche altri libri, Giuseppe Acconcia nel suo Egitto democrazia militare (Exorma, 2013), laddove scrive che Piazza Tahrir da laboratorio di politica di strada è poi diventata il centro della repressione.
Anche qui la domanda rimane sempre la stessa:
Ma, allora, ci sono state rivoluzioni capaci di non ricorrere alla morte-di-Danton?
Leogrande segue la Arendt e ci propone un interrogativo: è forse nel modello americano la risposta a questa domanda?
Commenta qui sotto e segui le linee guida del sito.