A cura di @NedCuttle21(Ulm).
In un commento pubblicato su Left, Lorenzo Guadagnucci traccia un parallelismo tra il Pepe Mujica detenuto in Uruguay negli anni della dittatura militare e i migranti fermi nei centri di detenzione libici.
Uno dei momenti chiave del film Una notte di dodici anni di Alvaro Brechner è un incontro in carcere fra Pepe Mujica e sua madre. Il futuro presidente dell’Uruguay, a quel punto in galera già da qualche anno, dà evidenti segni di cedimento. Dice di sentire delle voci, appare sofferente e smarrito: è stremato dalle torture, dalla brutalità, dall’isolamento in luoghi insopportabili. Il Pepe davanti alla madre cerca complicità più che conforto: sembra chiedere l’autorizzazione ad arrendersi, a cadere in uno stato permanente di semi coscienza, senza più lottare, senza più pensare a un possibile dopo. La madre intuisce lo stato d’animo del figlio e reagisce con forza: «Mamma un cazzo», dice a muso duro, e scuote il prigioniero: non devi mollare, non devi dargliela vinta. È andata proprio così: il Pepe resterà in piedi, lucido e determinato, come i suoi otto compagni di prigionia (nel film se ne vedono due), militanti Tupamaros tenuti in ostaggio dai militari golpisti, che minacciavano di ucciderli in caso di attentati o altre azioni della resistenza armata. Dopo dodici anni – nel marzo del 1985 – otto saranno liberati (il “Nepo” Adolfo Wasem Alaniz è morto in carcere nel novembre del 1984, ndr) al crepuscolo del regime: il Pepe rivedrà sua madre fuori dal carcere. L’incontro in parlatorio è importante perché documenta un aspetto decisivo nella dinamica della tortura (Una notte di dodici anni è un film sulla tortura, come non se ne vedevano da tempo). Mostra che la tortura si combatte attraverso il contatto umano, con la forza dell’empatia.
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