Il Mulino Articolo propone un estratto del libro La Retorica dell’Ascesa di Michael J. Sandel, che tratta della meritocrazia e di come il successo sia diventato segno di virtù, cosa che però può presentare delle ombre
Oggi consideriamo il successo nel modo in cui i puritani consideravano la salvezza: non come una questione di fortuna o di grazia, ma come qualcosa che guadagniamo con il nostro sforzo e con il nostro impegno. Questo è il cuore dell’etica meritocratica. Celebra la libertà – la capacità di controllare il mio destino a forza di duro lavoro – e il merito. Se io sono responsabile per aver accumulato una quota considerevole di beni terreni – reddito e ricchezza, potere e prestigio – non posso non meritarmela. Il successo è un segno di virtù. La mia ricchezza è ciò che mi spetta.
Questo modo di pensare è emancipante. Incoraggia le persone a pensare a se stesse come responsabili per il proprio destino, non come vittime di forze al di là del proprio controllo. Ma ha anche un lato oscuro. Più consideriamo noi stessi come individui che si sono fatti da sé e autosufficienti, meno è probabile che ci preoccupiamo per il destino di quanti sono meno fortunati di noi. Se il mio successo è dovuto a me stesso, il loro fallimento non può non essere una loro colpa. Questa logica rende la meritocrazia corrosiva di ciò che ci accomuna. Un’idea che insiste troppo sulla responsabilità personale per il nostro destino rende difficile immaginare noi stessi nei panni degli altri.
Immagine da Flickr
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