Gianluca Didino su l’Indiscreto usa Pastorale Americana per illustrare una “dissonanza cognitiva” che sembra serpeggiare nel sentire politico Occidentale intorno ai recenti fatti bellici e non solo: quella tra ciò che succede e ciò che sembra credibile e meritato che succeda.
L’autore propone inizialmente di leggere il capolavoro di Philip Roth, Pastorale Americana, attraverso la lente della psicologia sistemico-relazionale, spesso usata in terapia familiare.
La psicologia sistemica sostiene che il membro della famiglia che sviluppa il sintomo stia accollando su di sé un disagio familiare passato di generazione in generazione. Un caso classico è quello di una famiglia in cui le donne sono sempre state maltrattate: quando l’ultima della stirpe sviluppa una schizofrenia, e magari accoltella il marito nel sonno, sta assumendo su di sé non solo il proprio dolore, ma anche quello della madre, della nonna e giù nei meandri del tempo fino chissà a quale generazione. […]
Se leggiamo in questa chiave la vicenda di Pastorale americana – e credo sia impossibile non leggerla in questo modo – dobbiamo dedurne che Merry non è il vero problema di Levov. Non è la malattia, ma il sintomo della malattia, lo specchio deformante che mostra allo svedese il suo vero volto. Non è Merry a essere pazza: il vero pazzo è Seymour. O, quantomeno, c’è tanta follia in Seymour quanta ce n’è in Merry. Ecco che improvvisamente tutta la vicenda si ribalta.
Ma Pastorale Americana è anche un romanzo politico, che può dire molto sul passato e presente dell’Occidente, ma anche sul futuro.
Il punto è questo: da anni, ormai da quasi un decennio, ci ritroviamo di fronte a eventi che sconquassano il mondo con la stessa faccia incredula che fa Levov quando sua figlia fa esplodere l’ufficio postale della sonnolenta cittadina in cui abitano. Veramente sta succedendo questo? ci chiediamo, come lo svedese. Ma non è possibile! esclamiamo – sempre come lo svedese. E come lui proviamo a razionalizzare, a comprendere, a non farci prendere dall’emotività e dalla rabbia, o dalla paura.
Come nel caso di Levov, ci troviamo vittime di una dissonanza cognitiva: non riusciamo a comprendere come sia possibile preferire ai nostri valori di tolleranza, democrazia e libera circolazione delle merci e delle idee il culto della morte e il fanatismo religioso dell’Isis, ad esempio. O non siamo in grado di spiegarci personaggi come Putin se non attraverso narrazioni manichee. Proprio come Levov con Merry, finiamo per patologizzare ciò che non comprendiamo: quello dei terroristi è nichilismo travestito, Putin è in preda a un delirio di onnipotenza e via dicendo.
(Quella stessa dissonanza cognitiva l’ho esperita io stesso molte volte: come può – mi sono chiesto spesso durante gli anni degli attentati dell’Isis – una ragazza adolescente scappare da una città occidentale, da Londra o da Amsterdam, per unirsi a un Califfato che ne farà una schiava sessuale senza libertà di parola e soggetta alla violenza arbitraria degli uomini? Eppure è successo per anni.)
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