In un articolo pubblicato su Il Tascabile, Cesare Alemanni ripercorre la storia della Berlino post-Muro.
Più che di magnitudo, la distinzione tra un semplice fatto e un evento storico è questione di prospettiva. Per chi ne ha fatto esperienza da uno schermo, la caduta del muro di Berlino può essere soltanto l’evento storico che ha sancito l’inizio della fine della cortina di ferro, dell’impero sovietico, della guerra fredda. Per i berlinesi, quel che accadde il 9 novembre 1989 fu invece soprattutto un semplice fatto. Un fatto che di colpo sfasciava coercizioni geografiche di movimento, vita e pensiero. Radicate da quando, nel 1961, l’Antifaschistischer Schutzwall (barriera antifascista, come la si chiamava nella DDR) era stata costruita e di continuo perfezionata.
La possibilità di apprezzare nel muro di Berlino uno dei monumenti più kafkiani alla paranoia del ‘900 era, ed è ancora oggi, un privilegio garantito dalla distanza. Un privilegio di cui – tra tutti proprio loro – i berlinesi che ci convissero non poterono godere. Di fronte a quelle lastre di cemento armato ammutolivano la retorica, i simboli, le ideologie delle parti. Restava solo la bruta presenza dell’architettura: la barriera che segmentava lo spazio segregando i corpi e le loro relazioni in un gioco di soglie. Così intensamente arbitrario, dispotico e distopico (parola per una volta non abusata) che si fatica a credere che, per quasi trent’anni, sia in effetti stato giocato sul corpo di una delle città più significative del mondo moderno e contemporaneo.
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