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Le indagini online dopo Capitol Hill

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In queste settimane post-Capitol Hill, in cui si sta un po’ tutti a raccogliere cocci rotti e a cercare il modo di rimetterli a posto, le vicende che arrivano dagli Stati Uniti continuano ancora ad assomigliare a una serie cyberpunk. Dopo il grande deplatforming di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, cioè con Trump, QAnon e altri sostenitori dell’assalto al Congresso messi al bando dalle principali piattaforme, abbiamo anche assistito sui social alla caccia a chi aveva fatto irruzione al Campidoglio.  Una serie di cittadini americani si sono improvvisati investigatori digitali e si sono messi ad analizzare l’ampio repertorio iconografico, nonché tracce e dati disseminati in giro da partecipanti, osservatori, media, in quel famigerato 6 gennaio. Il Los Angeles Times ha intervistato diverse persone che si sono dedicate a cercare di identificare gli assalitori, per passare le informazioni all’Fbi. Alcune di queste si sono organizzate attorno ad hashtag come #SeditionHunters (“cacciatori di sedizione”, qui un esempio), e hanno dato ai sospetti da individuare dei nomi/hashtag provvisori per facilitare la ricerca e condivisione di informazioni. Del resto, è stata la stessa polizia di Washington, il 7 gennaio, a pubblicare foto di sospetti e a chiedere al pubblico di identificarli, ricevendo 17mila segnalazioni in un solo giorno. Ma mentre questa ricerca veniva fatta, in alcuni casi, da specialisti della cybersicurezza e dell’analisi su fonti aperte come John Scott-Railton, ricercatore al Citizen Lab, o anche dal gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat, l’emergere di indagini spontanee e crowdsourced ha preoccupato vari osservatori, specie per il rischio di errori, di esporre identità in pasto al pubblico, e di altre possibili conseguenze. Tra l’altro alcuni ricercatori hanno anche applicato tecnologie di riconoscimento facciale per individuare soggetti, segnala Vice.

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