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Le mostre immersive sono una cagata pazzesca

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Un recente articolo pubblicato sul Guardian a firma di David Batty ospita una serie di punti di vista che vede sostanzialmente la contrapposizione tra artisti che criticano le mostre immersive, come quelle ispirate ai grandi artisti del passato, definendole “arraffa soldi” e le aziende che le organizzano che sostengono siano un nuovo modo di guardare alle loro opere.

Leading digital artists have claimed that some of the most popular commercial immersive experiences, particularly those based on the work of deceased artists, such as Van Gogh and Dalí, are a money grab that provide little reward to visitors beyond Instagrammable moments.

Secondo alcuni queste mostre sfrutterebbero varie tecnologie non particolarmente innovative (nella maggior parte dei casi si tratta di video mapping), senza lasciare spazio all’innovazione e soprattutto con poco rispetto verso l’eredità artistica degli autori citati.

È in fondo questo il vero e proprio punto dirimente circa la liceità di tali operazioni? Da una parte l’innegabile capacità che i display interattivi, gli effetti speciali, gli ambienti immersivi hanno nel coinvolgere un pubblico trasversale e molto spesso non propriamente alfabetizzato ai codici degli spazi espositivi e dei linguaggi artistici e dall’altro il rispetto intellettuale verso la poetica di autori, nel più dei casi morti, che non possono dire la loro sull’utilizzo “espanso” del loro lavoro.


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