A cura di @NedCuttle21(Ulm) (modificato).
Un articolo pubblicato su Left critica quella che considera un’immagine di “capitalismo dal volto umano” alimentato dal marketing e dalla comunicazione del gruppo Benetton.
C’è stato un momento, all’inizio degli anni 60, che le magliette di Benetton erano gli unici capi firmati che potevano permettersi i giovani delle classi subalterne del trevigiano, un po’ l’evoluzione delle magliette a strisce che, poco prima, avevano turbato i sonni del governo Tambroni a Genova, Roma, Reggio Emilia. È in quell’epoca che la famiglia Benetton ama far risalire il proprio mito di imprenditori modello, self made men, nello spirito del Nord Est e dei distretti industriali, gente che s’è fatta da sé, che potevi incontrare in bicicletta mentre si recava in fabbrica al primo turno, tra i propri operai in bicicletta anche loro. Come dire “siamo tutti sulla stessa barca”, o bici che dir si voglia. Poi, Benetton prese a delocalizzare a Timisoara, in Ungheria, Spagna, Portogallo, Tunisia, Croazia, dopo avere imposto ai contoterzisti veneti l’acquisto di macchinari nuovi per presunte future produzioni di qualità, magari venduti dalla stessa casa madre e finanziati da una società di leasing del gruppo, dopo che erano spuntati più capannoni che campanili.
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