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Miti da sfatare sull’economia italiana

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Su il Mulino, Philipp Heimberger (economista all’Istituto di studi economici internazionali di Vienna), illustra la situazione economica italiana e i pregiudizi nel dibattito tra economisti.

Heimberger parte dai dati: il reddito pro capite dell’Italia alla fine degli anni novanta era di poco più basso di quello della Germania, oggi il divario è di circa  8.000€ con i tedeschi e 3.000€ con i francesi. Sulle cause di questo declino però Heimberger non la pensa come molti altri commentatori:

Nonostante lo scenario non roseo, la narrazione sulle cause del lungo declino italiano è stata raramente messa in discussione. «Gli italiani hanno sempre vissuto oltre le loro possibilità: è giunto il momento di adeguarsi!»: posizioni simili sono largamente condivise negli ambienti europei. È quindi doveroso adottare una prospettiva più oggettiva quando si tenta di descrivere e di interpretare il quadro economico italiano. È necessario sfatare i falsi miti che quotidianamente echeggiano sulle pagine dei media internazionali e che restituiscono un’immagine deviata del dibattito sulle politiche economiche da adottare.

Per Heimberger non si possono fare metafore semplicistiche mutuate dal bilancio di una famiglia. Per esempio un paese «vive al di sopra delle sue possibilità» quando importa più beni e servizi di quelli che esporta: dal 2012 la bilancia commerciale italiana è in positivo, quindi l’affermazione di «vivere sopra i propri mezzi» non si attaglierebbe al nostro paese.

Un secondo punto di interesse per Heimberger è il livello del debito italiano: l’indebitamento privato degli italiani è piuttosto basso, mentre quello pubblico è tra i più alti del mondo. L’attenzione dei commentatori e degli economisti si concentra però solo sul famigerato rapporto tra debito pubblico e PIL, sviando l’attenzione da una figura che seppur non senza criticità, dà una rappresentazione diversa del Paese.

Heimberger spiega come la grossa parte del debito sia stata accumulata negli anni 70 e 80, e che le politiche di austerità dei decenni successivi (dal 92 fino alla pandemia l’Italia ha un avanzo primario, cioè raccoglie più di quanto spende al netto degli interessi sul debito) abbiano probabilmente bloccato qualsiasi motivo di crescita, azzoppando la domanda interna.

Anche sulle riforme proposte all’Italia (e a volte dall’Italia attuate) Heimberger è critico. La flessibilizzazione del lavoro per esempio ha portato ad un declino dei salari rispetto a quelli tedeschi e francesi, ma soprattutto ha spinto gli imprenditori a puntare molto su settori ad alta intensità di lavoro, riducendo gli incentivi ad investire in tecnologie (vero volano della produttività) e quindi — perversamente — indebolendo il sistema produttivo invece di rafforzarlo.

L’articolo si chiude con una riflessione che è un invito per i decisori europei:

Tra i policy makers europei manca quasi del tutto una valutazione critica su come aiutare i politici italiani a realizzare una strategia di sviluppo – a parte assegnare i fondi del Piano di ripresa e resilienza. Un primo passo richiederebbe l’abbandono di vecchi paradigmi che vedono l’Italia bloccata nella trappola della crescita stagnante e del declino secolare.


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