A cura di @NedCuttle21(Ulm).
“Non amare Dickens è un peccato mortale”, comincia così un lungo articolo di Pietro Citati, pubblicato su La Repubblica il 20 dicembre del 2009. Il critico letterario considera l’autore del David Copperfield come il maestro, la stella polare di alcuni mostri sacri della letteratura mondiale:
Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lessero Dickens con la passione, l’entusiasmo e l’«incoerente gratitudine», che egli richiede da ciascuno di noi. Vissero insieme a lui; abitarono dentro di lui; e appresero da quel «rozzo romanziere popolare» i più sottili artifici letterari. Chi imparò da lui la tecnica del romanzo criminale, chi la presentazione dei personaggi, chi il gioco delle voci narrative, chi il dialogo fluviale; chi amò i «divini idioti» o i simboli o il calore analogico delle immagini. Tutti, in una parola, scorsero in Dickens un grande specchio – uno di quegli specchi incrinati e velati, che talvolta si trovano nelle soffitte – dove scoprire se stessi. Se il secolo scorso fu un tempo di “mostri” letterari, Dickens fu il più misterioso di questi mostri. Comprendiamo le persone e i libri di Balzac e di Dostoevskij; ma quale figura fu più straordinaria e assurda di quella di Dickens? Nessuno possedette il suo fiducioso candore e la sua bonomia e nessuno fu più allucinato; nessuno conobbe come lui la vita colorata e felice di ogni giorno e nessuno si inoltrò con tale fervore nel regno delle tenebre; era luminosissimo e notturno; superficiale e profondo; abitava soltanto cogli uomini reali e parlava soltanto cogli spettri; era ingenuo e sapeva tutto; lieto e pieno di orrori; gioioso e divorato dalle ossessioni.
Immagine da Flickr.
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