Il Tascabile presenta un estratto dal libro La via selvatica. Storie di umani e non umani, di Adriano Favole, professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Torino.
Sforziamoci di immaginare come dovevano apparire il mondo e l’ambiente ai nostri lontani antenati in quel lunghissimo periodo di tempo che chiamiamo “preistoria”. Immense foreste, fiumi senza argini né dighe che stagionalmente esondavano creando paludi e terreni umidi frequentati dagli uccelli e dalle loro prede, vaste aree boschive fitte e impenetrabili, animali selvatici, mari, fiumi e laghi ricchi di pesce: la forza e la ricchezza dell’incolto erano ovunque. I popoli di agricoltori da cui discendiamo hanno tenuto memoria soprattutto delle “paure” di quel mondo nelle fiabe e nei miti, nelle storie che si sono tramandate. Abbiamo meno tracce della ricchezza dell’incolto nel passato, a parte i racconti di paradisi perduti prima che Dio punisse l’uomo dicendo: “il suolo sarà maledetto per causa tua: ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita”.
La scheda del libro, pubblicata dalla casa editrice Laterza, definisce la “via selvatica”:
La ‘via selvatica’ è quella che ci fa scoprire che non siamo solo cultura, che l’essere umano vive delle relazioni che intrattiene con tutti i suoi ‘simili’, dalle api ai vulcani, dalle foreste alle barriere coralline, dalle piante ai funghi che abitano con noi la Terra. Adriano Favole ce la racconta portandoci dentro la foresta di Tchamba, sull’isola di Futuna, tra i vulcani di La Réunion, sulle ramificazioni liquide dell’Amazzonia, nella baia di Lékiny e tra le radure delle Alpi occidentali.
La lentezza con cui si impose l’agricoltura, che si diffuse poco a poco coesistendo con economie di caccia e di raccolta, insieme a una visione dell’agricoltura che non sia necessariamente lotta contro la natura, sono argomenti che Favole porta per sottolineare la complessità delle relazioni tra esseri umani e ambiente.
L’incolto è la nozione di cui abbiamo bisogno per uscire da quella contrapposizione tra natura e cultura che continua a colonizzare le nostre menti. L’incolto non è il caos: è la vita che si organizza, che germoglia, che si stratifica come i coralli, che si incontra e si scontra, la vita che rinasce continuamente nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo ‘cultura’.
Anche La città vegetale recensisce il libro di Favole:
Nell’introduzione l’autore spiega che avrebbe preferito impiegare il termine incolto al posto di selvatico ma di aver rinunciato perché questo termine “rimanda immediatamente all’idea di trasandato, trascurato, inglobando in sé un tratto negativo”. Con incolto Favole intende il non-umano, tutto ciò, quindi, “che vive al di fuori dei confini delle culture intese come spazi simbolici”.
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La tesi espressa da Adriano Favole può essere così sintetizzata. A partire da Cicerone che paragonava l’educazione dell’essere umano a un terreno da coltivare si è creata un’opposizione tra ciò che è coltivato, educato e ciò che non lo è e quindi è incolto e pertanto vive una vita selvaggia che, attraverso successivi sviluppi, ha costituito l’ossatura della cosiddetta civiltà occidentale. Se per un lungo periodo essa ha riguardato i rapporti tra classi ricche e classi povere, tra civilizzati e barbari, con il periodo delle grandi scoperte geografiche inaugurato da Cristoforo Colombo, l’opposizione si spostò tra i paesi europei e gli abitanti, i nativi, gli indigeni che vivevano nelle terre oggetto delle scoperte e che vennero considerati selvaggi, selvatici, incolti cioè non educati.
Pensando agli incolti non si può non fare riferimento al paesaggista Gilles Clément, di cui parla anche Adriano Favole, e al suo famoso Manifesto del Terzo Paesaggio. Un articolo della Rai delinea i concetti di terzo paesaggio elaborati da Clemént:
Un nulla che aspira a diventare qualcosa. E’ da questa idea di Terzo Stato che nasce il Terzo paesaggio. Con il suo Manifesto, Gilles Clément ha acceso i riflettori su quelle aree verdi, ai margini dell’abitato, sotto gli occhi di tutti ma non considerate, o ritenute inutili perché non produttive. Dunque, cos’è il Terzo paesaggio? Clément, agronomo, entomologo e paesaggista, lo mette a fuoco in questo modo: “Se si smette di guadare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre (…) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione”. E cos’è stato finora questo insieme di spazi senza ruolo se, fa notare Clément, fra questi “frammenti di paesaggio” non vi è alcuna “somiglianza di forma”? Tutto, si potrebbe rispondere, visto che il loro “punto in comune” è quello di costituire un “territorio di rifugio per la diversità” biologica. Per capire come Clément sia arrivato a queste conclusioni è utile ricordare come il suo sguardo da entomologo lo abbia da sempre aiutato a sondare gli spazi verdi. Con Il giardino in movimento (Le jardin en mouvement, 1994) Clément aveva già messo a punto un rapporto col giardino che si affida all’osservazione dei fenomeni biologici. E se questi sono sempre in mutamento, allora perché non provare a non intervenire per osservare il movimento naturale delle forme di vita? Questa sfida, dalle infinite implicazioni ecologiche, è confluita pochi anni dopo ne Il giardiniere planetario (Le jardin planétaire, 1999), dove il “giardino in movimento” può diventare un modello per l’intero pianeta. Questo a sua volta è chiuso e misurabile come un giardino, e l’umanità ha la responsabilità di osservarne i meccanismi e gestire gli spazi coltivati come quelli incolti.
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