Che mozzare di netto il tronco possa non bastare ad uccidere un albero l’ho scoperto da ragazzino, un giorno d’inverno in cui il nonno si decise ad abbattere un grosso e vecchio salice – o selgàro, come lo conosceva lui – sul limitare dei campi. L’albero era lì da sempre, almeno dacché io ne avevo memoria, piantato da qualche mio trisavolo un secolo prima – o magari cresciuto spontaneamente, chi lo sa. Un tempo, mi spiegava il nonno mentre riempiva di benzina il serbatoio della motosega, di salici ce n’erano dappertutto, nella campagna veneta. Rustici e versatili, venivano propagati per talea, piantumati lungo i fossi o in capo ai filari di viti e poi capitozzati, i loro rami più elastici e flessibili utilizzati come vimini o legacci naturali per fissare i tralci.
Sono alberi tristi e magnifici, d’estate le loro foglie argentee rifulgono al sole, e se tagliati da adulti rivelano una striatura vermiglia, tra la corteccia e l’alburno, rossa come il sangue. Forse è per questo che la tradizione letteraria, dai Salmi a Quasimodo, ha sempre associato queste piante malinconiche al dolore e al distacco. In Furore di Steinbeck, quando la famiglia Joad sta per abbandonare le pianure esauste del Midwest, i vecchi si domandano nostalgici come sarà svegliarsi in una terra lontana, in piena notte, e sapere che il salice non c’è. “Si può vivere senza il salice? No, no che non si può. Il salice sei tu”.
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