un sito di notizie, fatto dai commentatori

Salice

0 commenti

Che mozzare di netto il tronco possa non bastare ad uccidere un albero l’ho scoperto da ragazzino, un giorno d’inverno in cui il nonno si decise ad abbattere un grosso e vecchio salice – o selgàro, come lo conosceva lui – sul limitare dei campi. L’albero era lì da sempre, almeno dacché io ne avevo memoria, piantato da qualche mio trisavolo un secolo prima – o magari cresciuto spontaneamente, chi lo sa. Un tempo, mi spiegava il nonno mentre riempiva di benzina il serbatoio della motosega, di salici ce n’erano dappertutto, nella campagna veneta. Rustici e versatili, venivano propagati per talea, piantumati lungo i fossi o in capo ai filari di viti e poi capitozzati, i loro rami più elastici e flessibili utilizzati come vimini o legacci naturali per fissare i tralci.

Sono alberi tristi e magnifici, d’estate le loro foglie argentee rifulgono al sole, e se tagliati da adulti rivelano una striatura vermiglia, tra la corteccia e l’alburno, rossa come il sangue. Forse è per questo che la tradizione letteraria, dai Salmi a Quasimodo, ha sempre associato queste piante malinconiche al dolore e al distacco. In Furore di Steinbeck, quando la famiglia Joad sta per abbandonare le pianure esauste del Midwest, i vecchi si domandano nostalgici come sarà svegliarsi in una terra lontana, in piena notte, e sapere che il salice non c’è. “Si può vivere senza il salice? No, no che non si può. Il salice sei tu”.

Continua a leggere su Medusa, la newsletter


Commenta qui sotto e segui le linee guida del sito.