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Se in Giappone il progressismo è di destra

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Su Il Tascabile, Guido Alberto Casanova parla del principale partito politico giapponese, il Liberal Democratic Party (LDP). L’LDP è tipicamente considerato un partito di destra conservatrice, ma negli ultimi anni ha proposto alcune riforme che, secondo l’autore, potrebbero essere definite progressiste:

Parità di genere, pianificazione familiare, diritti dei lavoratori, immigrazione, minoranze: il governo di Tokyo sta pian piano mettendo mano a tutti questi dossier. Nulla di eccezionale in sé, molti paesi si stanno muovendo lungo queste direttrici. Ciò che però stupisce è che il motore dietro questa serie di nuovi provvedimenti non è una forza politica progressista, bensì la destra incarnata dal Partito Liberaldemocratico (LDP).

L’LDP è di fatto partito unico in Giappone, ed è stato al potere quasi interrottamente dal 1955 ad oggi (perse le elezioni del 2009, e tornò al potere con Abe nel 2012). Questo partito però è ben lontano dall’essere un blocco solido e coerente, infatti ogni breve descrizione cela la presenza di potenti fazioni all’interno del partito, che vanno dagli ultra-nazionalisti ai liberali centristi.

Une delle politiche progressiste che è stata portata avanti dall’LDP è la cosiddetta womenomics:

 Con questo termine adottato nel 2013, Abe intendeva descrivere una politica di agevolazioni verso le donne che ne favorissero l’impiego e la partecipazione nella vita socio-economica del paese.

Ma, come riporta Tokyo Review, la womenomics deve essere principalmente considerata una iniziativa per rilanciare l’economia giapponese e far fronte alla carenza di lavoratori:

Borrowing the term from Goldman Sachs Chief Japan Strategist Kathy Matsui, Abe first trumpeted “Womenomics” at the UN General Assembly in 2013 as a means to both boost the Japanese economy while addressing the pressing labor shortage as well as bolstering Japan’s international reputation on gender equality.

Oltre alla parità di genere, l’altro argomento nei confronti del quale l’attuale primo ministro giapponese Kishida ha espresso un forte interesse è la redistribuzione della richezza:

Durante le tradizionali negoziazioni sindacali di primavera, il premier ha chiesto alle aziende di concedere aumenti salariali del 3% minimo in modo tale da far riprendere i consumi e l’economia in generale. Per farlo, il governo ha anche approvato incentivi fiscali per le aziende che avrebbero deciso di aumentare le paghe dei dipendenti. Sebbene l’obiettivo non sia stato centrato e i dati dei sindacati riportino solo un aumento generale appena sopra il 2%, Kishida si è comunque potuto fregiare di aver aiutato il secondo aumento annuale dei salari più importante degli ultimi 20 anni.

Un altro argomento molto discusso è quello della riforma del Codice civile

che dovrebbe contenere per la prima volta la possibilità della custodia condivisa dei figli tra i due genitori.

L’autore però riporta:

L’utilitarismo economico di alcune recenti riforme progressiste è quindi abbastanza evidente. Ad esempio, l’attenzione verso le prospettive lavorative delle donne non sembra nascere da una particolare sensibilità femminista.

Il nocciolo della contraddizione di un paese conservatore che adotta politiche progressiste in fondo sta tutto qui, dentro la crisi demografica che il Giappone sta attraversando.

Che l’LDP non si sia convertito al progressismo è un fatto che ci viene ricordato da molti altri elementi. Nel paese vige ancora il divieto per le coppie sposate di mantenere due cognomi separati, i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono ancora osteggiati da gran parte delle autorità, il numero di nuovi rifugiati accolti ogni anno nel paese non supera mai qualche decina di unità, i residenti stranieri non possiedono il diritto di voto nemmeno nei referendum locali, e la lista andrebbe ancora avanti.


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