Il centro di Roma può essere un posto plumbeo e funereo, soprattutto alcune sere d’inverno senza luce, quando ci si ritrova a camminare e a perdersi tra le stradine che collegano le mete turistiche, le vie strette che si intrecciano dietro piazza Navona, dietro Campo de’ Fiori, tra i palazzoni barocchi e i portoni chiusi di accademie, ministeri e chiese. Da bambino, in gita al centro la domenica, mi piazzavo spesso davanti a qualche cantiere in mezzo alla via, e mi stupivo che quei buchi, sollevando l’asfalto e i sampietrini, potessero davvero mostrare il suolo umido, il fango. In una zona così fitta di case, una zona per di più con pochissimi alberi, mi aspettavo forse di trovare, sotto la strada, altro asfalto e altri sampietrini, e non ghiaia e tufo come se fossimo in campagna. Almeno in parte, la vista di quel terreno mi riconnetteva a qualcosa di meno tetro, di più familiare, mi calmava. Non mi avrebbe certo fatto la stessa impressione se avessi saputo già da piccolo dell’esistenza di quella città nascosta sotto la città, della rete non solo di resti archeologici, ville e terme sepolte, ma anche di ipogei, sepolcri, catacombe e gallerie di cava custoditi nel sottosuolo, spesso ormai irraggiungibili.
In Qualcosa di scritto Emanuele Trevi racconta del suo apprendistato di giovane scrittore al Fondo Pier Paolo Pasolini sotto l’egida e il controllo bisbetico di Laura Betti. In una pagina apparentemente slegata dal resto, a metà libro, Trevi svela la natura occulta, la cupezza di quel pezzo del centro di Roma, dove Betti viveva, e riconduce l’aspetto malinconico di quelle strade al mondo sotterraneo sopra cui sono state costruite. Merita di essere citato per intero, mentre immagina di accompagnare il lettore all’interno di quei palazzoni che non sono altro, scrive, che “sontuose botole degli Inferi”:
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