Un articolo pubblicato su Il Tascabile ripercorre la storia di Epica Etica Etnica Pathos, l’ultimo album dei CCCP.
In “Live in Punkow”, brano-manifesto del 1984, i CCCP cantano “voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia”, mentre nelle interviste di allora parlano del blocco Est come di una certezza intoccabile: un gruppo del genere – che si autodefinisce “filosovietico” e dunque politico, per quanto romantico, provocatorio, contraddittorio – non può sopravvivere al crollo dell’Unione Sovietica. Così, mentre l’URSS è nel caos e il mondo affronta una trasformazione radicale, il 13 settembre 1990 esce il loro ultimo album, Epica Etica Etnica Pathos, testamento di una band che ha fatto scoprire l’alternative e una certa avanguardia alla canzone italiana, ma ormai al termine della propria esperienza. Anche per questo, è un lavoro diverso dai precedenti: per certi versi anticamera dei Consorzio Suonatori Indipendenti (la loro seconda e più tradizionale incarnazione: meno politica, più mistica), si dipana come un concept in quattro sezioni sulla “fine”, sposando un inedito modo “conviviale” di produzione e un suono world stratificato, d’autore.
E, trent’anni dopo, rimane fondamentale per la nostra musica, sia per tematiche – il rifugio nella tradizione delle campagne, la disillusione, la desistenza politica – che per capacità di raccontare, da testimone e protagonista, la fine della guerra fredda e la caduta del socialismo. È la chiusura, insomma, dei CCCP e della loro capacità di coniugare arte e politica, ma ne è anche l’estrema esaltazione, perché racchiude la geografia sentimentale dei luoghi, degli ideali, dell’estetica. Restituendo a pieno, soprattutto, l’identità originale e complessa.
Immagine da Flickr.
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