Su Doppiozero, Alessandro Carrera riflette sulla rielezione di Donald Trump.
È come aspettare il risultato di una biopsia, aveva scritto Michelle Goldberg sul “New York Times” il 2 novembre. Il risultato è arrivato, e se il paziente non è morto, certo manda uno strano odore. Proprio il giorno delle elezioni, un amico dall’Italia mi ha chiesto se gli potevo riassumere la situazione. All’incirca, questo è quello che gli ho scritto (senza nessun senno di poi):
“Kamala Harris ha condotto una campagna con contenuti abbastanza blandi ma, data la polarizzazione già presente e la sua entrata tardiva, non poteva permettersi di essere troppo esplicita. In una situazione del genere, qualunque proposta fai, ci sarà sempre qualcuno che ti trova troppo a sinistra o troppo a destra. Qualunque cosa dici, sbagli.
Trump ha di fatto delegato la politica al suo vice, J.D. Vance, il quale è abbastanza furbo da apparire di volta in volta feroce o conciliante. Dietro Vance sta Peter Thiel (fondatore di PayPal, a sua volta consigliato dai libertari più radicali di Silicon Valley). L’altro gruppo che preme per avere voce in capitolo nell’amministrazione Trump, oltre a Elon Musk, è quello che fa capo alla Heritage Foundation, la quale ha rilasciato un documento di 922 pagine sulla totale ristrutturazione o meglio destrutturazione dello stato federale, di cui si salveranno solo polizia ed esercito. La prima pagina del documento inizia dicendo che bisogna liberare gli Stati Uniti dall’egemonia marxista (ma l’America è già libera: Fredric Jameson, ultimo marxista rimasto in America, è morto il 22 settembre, e di Noam Chomsky emergono interviste su YouTube che di sicuro vengono dall’oltretomba). Trump, a suo dire, in quelle 922 pagine non sa nemmeno cosa ci sia scritto, e per una volta gli credo sulla parola.
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