Su suggerimento e a cura di @Ebroin
Amira Hass è una giornalista israeliana nota per le sue posizioni radicalmente filo-palestinesi. Ha scelto di risiedere nei territori occupati per meglio portare testimonianza del conflitto dal punto di vista degli oppressi. Nell’edizione cartacea di “Internazionale“, la sua consueta rubrica questa settimana si intitola Un tabù infranto e inizia così:
Nell’ultima settimana ho volutamente infranto un tabù palestinese: ho parlato delle donne che fuggono dalle violenze domestiche rifugiandosi nei checkpoint israeliani, dove impugnano un coltello o cercano di accoltellare un soldato per essere sicure di finire in carcere per qualche mese. Non è un fenomeno nuovo, ma negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale.
L’articolo a cui si riferisce è apparso su Haaretz, dove però è un contenuto a pagamento. Qui è possibile leggerne un ampio estratto. La Hass, come di consueto, si concentra sulle responsabilità israeliane: i soldati spesso uccidono queste donne e l’occupazione israeliana è una delle cause delle tensioni interne alla società palestinese. Questo punto di vista è condiviso da altre attiviste che hanno affrontato il tema. Un esempio è questo articolo di Helena Cobban.
Il carcere israeliano, a quanto pare, è una possibile via di fuga dalla disperazione domestica: la donna viene considerata un’eroina nel suo ambiente di provenienza e contemporaneamente può allontanarsi dalla famiglia per qualche mese. Spesso, però, si tratta anche di tentativi di suicidio: tentare di togliersi la vita è vietato dall’Islam, ma per i martiri si fa spesso un’eccezione, specialmente nei territori occupati.
Immagine di Peter Hagyo-Kovacs via Wikimedia Commons, CC BY 3.0
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