A cura di @NedCuttle21(Ulm).
In un lungo articolo pubblicato su Minima&moralia, Christian Raimo propone un’analisi della figura e dell’opera letteraria di Charles Bukowski, il celebre scrittore statunitense di origini tedesche scomparso il 9 marzo del 1994 all’età di 73 anni.
Bukowski è l’esatto contrario dello scrittore da scoprire. È lo scrittore scoperto, anzi. La bibliografia dei libri con il suo nome in copertina comprende un centinaio di titoli, il che vuol dire che di quello che ha scritto Bukowski si è pubblicato (e tradotto) tutto. Racconti tirati fuori dal cestino, poesie scritte sulla tovaglietta di un bar, le lettere, i biglietti agli amici, i disegnini fatti al telefono. Bukowski è uno scrittore che è stato raccontato da decine di biografie, testimonianze, interviste. E la ragione sta certo nel fatto che Bukowski è uno scrittore molto amato (il che significa ovviamente molto venduto), ma soprattutto che è uno scrittore che sembra aver completamente eliminato quei confini che separano, per dirla con Eco, autore empirico/narratore/personaggio. Nei suoi romanzi, nei suoi racconti, nelle sue poesie, Bukowski parla in maniera esplosiva, attraverso di sé, di ciò che conosce (o che vorrebbe conoscere) meglio: se stesso, il mondo che lui è. Con un unico criterio di valore: un’intensa sincerità. (Di questa asintotica identità tra arte e vita fa, ad esempio, le spese la sua seconda moglie che si ritrova ad avere a che fare con un marito alcolizzato e scontroso, e non con un sobrio letterato che pensava si atteggiasse soltanto a maudit).
Immagine da ipernity.
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