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Verme

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Anna Maria Ortese era ammalata di “un eccesso di pietà e di immaginazione”, ammalata di sensibilità, potremmo dire, esattamente come Jimmy Op, il protagonista di uno dei suoi ultimi libri, Alonso e i visionari, che soffre fino quasi a lasciarsi morire soltanto al pensiero dei dolori sopportati da un cucciolo di puma che adora, a cui è fatalmente legato, una bestiolina dolce e mansueta prima adottata e poi odiosamente maltrattata da una famiglia di suoi conoscenti. 

Come Op, Ortese si sentiva schiacciata “dall’indifferenza e l’inumanità di gran parte degli uomini per i più deboli”, dove i più deboli erano invariabilmente tutte le creature appartenenti al mondo animale, “un’altra razza, un popolo oltre l’umano”. Scriveva:

Ritengo gli Animali Piccole Persone con una  f a c c i a, occhi belli e buoni che esprimono un pensiero, e una sensibilità chiusa, ma dello stesso valore della sensibilità e il pensiero umano, soltanto lo esprimono al di fuori del raziocinio o ragione per cui noi andiamo noti, e ci incensiamo tra noi. (…) Le piccole persone sono pure e buone. Non sono avide. Non conoscono né l’accumulo né lo sperpero.

È un passaggio tratto da uno dei tanti saggi che dedicò al tema, “Le Piccole Persone”, appunto, che dà il nome a una raccolta pubblicata da Adelphi. Ma una frase del genere, nascosta in un dialogo, in una lettera o in una riflessione ad alta voce, l’avrei potuta benissimo pescare da qualcuno dei suoi romanzi, perché gran parte delle cose che scrisse, Anna Maria Ortese, le scrisse con lo stesso linguaggio espressivo e la stessa urgenza quasi delirante (“f a c c i a”). Poco importa che apparissero negli editoriali per il Corriere o in racconti brevi, le sue parole erano sempre ugualmente permeate dallo stesso genuino dolore per la condizione animale, per l’amoralità umana, per il compiaciuto distacco con cui l’uomo condanna al martirio creature a lui simili, anzi più nobili di lui.

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