Samuel Hine su GQ parla delle terribili felpe, cappellini, magliette e tazzone da caffè con il logo di aziende/squadre/cantanti/redazioni.
In un tempo ahinoi mai abbastanza lontano, questi oggetti impazzavano:
Di recente, stavo riordinando i cassetti del mio armadio quando ho scoperto uno spesso strato di magliette sepolte sotto la mie standbys, indisturbate da molti mesi. Dispiegando gli indumenti piegati, ho trovato ricordi acquistati nel 2017 a concerti, ristoranti e da persone a caso su Instagram, tutti indossati per un po’ e poi dimenticati. Era una scorta degli anni in cui il merchandising occupava una posizione culturale speciale, quando la grafica era il linguaggio dello stile e la moda abbracciava i souvenir e le novità. Ho messo la mia piccola collezione in una cassa di plastica per conservarla a lungo. Non riesco a immaginare di liberarmene. Ma non riesco nemmeno a immaginare di indossarle ancora.
Hine spiega come il bisogno di comunicare qualcosa e di appartenenza abbia creato magliette come questa, sfornandone sempre di più in un circolo vizioso che vedeva acquirenti e aziende rincorrersi per scandagliare il fondo del cattivo gusto.
Fino alla presa di coscienza dell’essenza inesorabilmente dozzinale di questi capi:
Ma la verità è che il merchandising stava diventando una manifestazione fisica dell’algoritmo. Per ogni progetto di merchandising originale e visivamente convincente che si allinea perfettamente ai miei interessi, c’è una barca di felpe con una frase pronunciata da Gwyneth Paltrow in un’aula di tribunale di Park City, nello Utah, o tazze da caffè con la foto segnaletica di Donald Trump, la versione cinica del merchandising della fast fashion. «Una volta il merchandising aveva un significato concreto», afferma Lawrence Schlossman. «Ora è più che altro un simbolo a grandi linee che rappresenta un tipo di messaggio non specifico su ciò che ti interessa. Un cartellone pubblicitario che dice che vivi a New York o che hai passato due settimane a passeggiare a Silver Lake, o qualsiasi altra cosa».
La tendenza insomma è morta e sepolta, ma recrudescenze sono sempre possibili. L’amica che è tornata con una tote bag con il logo di un’università, il collega che ha sborsato sessantaginqueuri per un felpone grigio-colore-del-pentimento-con-scritta-davanti (a rischio infeltrimento al primo lavaggio), insomma diciamogli che no. Per loro, per noi stessi, per le future generazioni, per un’Italia migliore.
Commenta qui sotto e segui le linee guida del sito.