In un articolo del Guardian, Judy Singer, sociologa australiana nota per i suoi lavori su autismo e neurodiversità, ipotizza che tre quarti dei casi di autismo rappresenterebbero una “variabilità umana” piuttosto che una patologia mentale. Le diagnosi di autismo sono cresciute del 700% neglli ultimi vent’anni e, stando ai dati attuali, solo una persona autistica su quattro avrebbe una disabilità intellettiva riconosciuta. Secondo Singer, gli altri casi ricadrebbero nell’ambito della neurodiversità (fu lei a coniare questo termine) o neurodivergenza, e rappresenterebbero alcune delle infinite varianti riscontrabili a livello cognitivo nella popolazione umana, particolarità che rischiano di andare perse nelle definizioni cliniche che sono spesso semplicistiche e riduttive:

It is being used to mean ‘neurodisability’ when my idea was precisely to avoid dividing humanity into ‘us’ and ‘them’,” she said. “Neurodiversity simply refers to the limitless variability of human minds.

Non mancano tuttavia altre posizioni, come quella di Simon Baron Cohen, per cui alcuni tratti frequenti nell’autismo possono in effetti essere considerate talenti e punti di forza, suggerendo di considerare anche fattori sociali, e non solo medici, nel considerare questa condizione come una disabilità. Di diverso tenore, e moderatamente più caute, le opinioni di di Steve Silberman, divulgatore scientifico e giornalista per “Wired”: individui autistici senza chiare disabilità intellettive hanno comunque difficoltà nella loro vita, e un cambiamento di categorie rischia di farli rimanere senza aiuto adeguato ad affrontare queste sfide, Un altro problema, infatti, è il rischio di esclusione sociale, con comseguenze gravi come un alto tasso di suicidi:

Silberman is particularly concerned by the high rate of suicide among autistic people who do not have an intellectual disability: nine times higher than the general population. This, he said, was largely due to society not acknowledging and accommodating their social and emotional needs.