Su Doppiozero, Giuditta Bassano indaga l’universo del lavoro femminile passando in rassegna alcuni lavori tra cui, in particolare, Lo statuto della lavoratrici, libro d’inchiesta scritto da Irene Soave e pubblicato recentemente da Bompiani.
Lo statuto delle lavoratrici è un’indagine e un trattato sul mondo del lavoro italiano e occidentale dal taglio inedito. Taglio che rende il libro una lettura del tutto fuori dal comune e obliqua a diversi generi. Lo stile ha qualcosa di visivo, costruisce una specie di percorso a falcate che assomiglia a un videoclip girato con una steadicam: una semi-soggettiva sul male di lavorare, sul lavoro che ammala, ma anche su una serie di tracciati concettuali e materiali grazie a cui il lavoro si potrebbe ripensarlo, riscriverlo, eccome. La questione d’altronde è globale; Soave cita autori cult – Mark Fisher, Sarah Jaffe, David Graeber, Eva Illouz, Thomas Piketty, Gloria Steinem. Il lavoro non ci ama, ma nemmeno noi.
Lo statuto delle lavoratrici è un saggio femminista:
… il punto di partenza è perciò obbligato: gli stipendi delle donne mostrano una forbice di notevole disparità rispetto a quelli maschili. Tra i lavoratori poveri – quelli cioè il cui salario è inferiore al 60 per cento della mediana nazionale – il gap italiano dei salari maschili e femminili è del 16,6 per cento e non si è mai ridotto negli ultimi trent’anni. Nel nostro Paese, l’80 per cento dei contratti part-time è stipulato con femmine. Al 2020, in un sondaggio di Doxa per una società d’investimenti – il saggio di Soave restituisce un’immagine al vetriolo dei “prodotti di alfabetizzazione finanziaria pensati per clienti donne” – si fissava l’indipendenza economica a un introito di circa 1778 euro; 2060 con un figlio; 1520 al Sud. Ma ci arrivava solo il 40 per cento delle intervistate.
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