Nicolò Porcelluzzi ha intervistato per Il Tascabile il giornalista Giuseppe Rizzo, autore del libro I fantasmi non esistono, un lavoro nato da una serie reportage sulla vita ai margini della nostra società.
L’idea di intervistare il giornalista Giuseppe Rizzo (l’autore di I fantasmi non esistono) nasce insieme a un’altra, quella di intervistare l’architetta e urbanista Keller Easterling. Nei loro ultimi libri entrambi tentano di indagare le forme della disuguaglianza nello spazio sociale, nello spazio immobiliare, urbano e virtuale. Se la conversazione con Easterling è più teorica, quella che segue è senza dubbio più diretta: si concentra sugli spazi-soglia che non ci interessano finché non ci toccano, ovvero i dormitori, i carceri minorili, i cosiddetti progetti di social housing. Soprattutto, si concentra sugli esseri umani che li subiscono.
Nel libro si intrecciano gli aspetti sociali ed economici della lotta alle disuguaglianze, e l’autore porta esempi di realtà che intraprendono questa lotta, ad esempio le associazioni che forniscono abitazioni ai senza dimora.
Secondo l’associazione fio.PSD, che segue questo tipo di progetti, il costo medio per ospitare una persona in uno di questi appartamenti è di 26 euro al giorno, in un centro per senza dimora è di 32, in carcere (dove chi vive per strada spesso finisce per reati di poco conto) è di 137. Ma non è solo una questione di soldi risparmiati, è un modo per ribaltare certi paradigmi. In Italia, così come in molti altri paesi, il sistema per aiutare i senza dimora si basa su un modello a scala, che prevede il passaggio nei centri diurni, nei dormitori, percorsi di disintossicazione e infine una sistemazione più stabile. La casa è la ricompensa suprema. Ma pochi ci arrivano. Il problema è che si ragiona quasi sempre secondo logiche d’emergenza, e con pochi soldi, molta stanchezza e tantissima disattenzione – se non malafede – delle istituzioni.
Uno degli aspetti toccati dall’intervista è il difficile compito di scrivere di povertà senza scadere nel pietismo o nei luoghi comuni:
Faccio un esempio. Il libro si apre con la storia di Egbert Pascual, un filippino di 58 anni arrivato a Milano per cercare di costruirsi una vita migliore. Pascual abitava con la madre e la sorella, entrambe badanti. Dopo un po’ ha rotto con loro ed è finito per strada, poi in un dormitorio e infine è morto di covid. La famiglia non ne ha saputo niente per un anno. È toccato a me dirglielo, dopo che mi ero imbattuto in un articolo che accennava appena alla sua morte e avevo deciso di ricostruirne la vita. Dai racconti della mamma, della sorella e della zia emergeva un uomo fragile ma anche incline all’ira, scostante, chiuso. La mamma ne aveva paura. Eppure, continuando le ricerche è emerso un altro Pascual, che per anni aveva fatto volontariato e aiutato chi aveva bisogno. I volontari e gli attivisti ne avevano un ricordo commosso. Ma tutto questo è emerso dopo diversi mesi di lavoro, molti incontri e tante domande. Osservare, pazientare, fare domande è un altro modo di scrivere. Fa emergere dettagli – perfino minuzie – che possono illuminare una frase o una pagina, e permette di non generalizzare o semplificare.
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