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Toobino: I nuovi abiti dell’imperatore

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The Public Domain Review pubblica un articolo dal titolo “The Emperor’s New Clothes: Fashion, Politics, and Identity in Mughal South Asia” nel quale analizza come gli imperatori della dinastia Moghul abbiano usato l’abbigliamento per ridefinire la propria identità politica e culturale, trasformando la moda in strumento di assimilazione durante la dominazione dell’India.

L’articolo prende le mosse dallo sguardo spiazzato di Babur, fondatore dell’Impero Moghul, di fronte agli usi del corpo e dell’abbigliamento dell’India del XVI secolo: climi caldi, tessuti leggeri, talvolta nudità rituale, abitudini che stridevano con la sua formazione centro-asiatica e islamica. Da questo “urto culturale” si sviluppa una storia di trasformazione: i successori di Babur capiscono che vestirsi non è solo adattarsi al clima, ma anche dichiarare pubblicamente chi sei e a chi appartieni.

When Emperor Akbar (Babur’s grandson) adopted a white cotton jāma — a translucent garment with a tight bodice, arm-hugging sleeves, and a skirt that fell a little beyond the knees — into his wardrobe, it signalled a significant cultural shift.

Akbar e poi Jahangir trasformano la sartoria in politica. Abbandonano progressivamente le vesti pesanti e multilayer della tradizione turco-mongola, adottando il jama di cotone, spesso traslucido, legato da un patka in vita. Questa scelta rende il corpo più visibile, lo “illumina” senza esporlo, e comunica un nuovo tipo di sovranità: non solo conquistatrice, ma “assimilatrice”, capace di incorporare l’India nelle fibre stesse del potere. La corte codifica colori, trasparenze, modalità di drappeggio; ogni dettaglio diventa una grammatica di segni che parla di legittimità, universalismo e padronanza del territorio.

Akbar’s change of attire was more than a way of dressing for warmer weather. This adoption of local garments was part of a greater effort to marry the Mughal’s Islamic traditions with the Indic culture that they now found themselves immersed in.

L’articolo insiste su un nodo sottile: il cotone traslucido come compromesso tra pudore islamico e estetiche indiane del corpo. Coprire, ma lasciare filtrare luce e pelle, allude a virtù visibili, a un’aura quasi sacra che non è ostentazione, bensì manifestazione. In questo quadro, Akbar coltiva un’immagine di re dotato di “luce” (farr), erede di genealogie leggendarie e favorito da una provvidenza che si riflette nella sua apparenza. Il corpo regale diventa un santuario di significati: disciplina, rettitudine, ordine cosmico — e la veste è la soglia attraverso cui tutto questo si mostra.

Emperor Akbar chose to wear the cotton jāma in order to advance a very specific kind of royal propaganda: the mythology of divine light, which radiated from his body, as beneficence and wisdom radiated outward from his rule.

Indossare bandhani rajput, patka gujarati, mussole del Bengala non è questione di gusto: è geografia politica cucita addosso. La corte celebra campagne e matrimoni dinastici incorporando nel guardaroba i tessuti dei regni integrati, trasformando il vestito in un atlante vivo dell’impero. Così il sovrano “porta” l’India sul proprio corpo: ciò che conquista lo indossa, ciò che allea lo avvolge, ciò che amministra lo decora. La moda diventa propaganda silenziosa, capace di convincere prima ancora di parlare.

L’articolo mostra come questa politica dell’abbigliamento penetri nella miniatura di corte, nelle cerimonie, nel protocollo quotidiano: trasparenze, pieghe, cinture, colori codificati, tutto è orchestrato per restituire un re che appare legittimo perché appare “giusto”. Il ritratto non copia il reale: lo eleva, lo purifica. E il rituale — dalla presentazione in darbar all’assegnazione di abiti come favori — fa della vesta una moneta di grazia, una tecnologia del consenso.

By assimilating the various materials, meanings, and metaphors that cloth represented in South Asia, the Mughals were not only trying to gain legitimacy but were actually becoming Indic at a deeper level of identity.

Nel tempo, i Moghul smettono di essere soltanto una dinastia della steppa trapiantata in India: diventano un potere indiano, radicato nei tessuti, nei gusti, nelle economie del subcontinente. L’articolo suggerisce che l’abito non sia semplicemente “forma”, ma una sostanza politica: una lingua che dice appartenenza, un’etica del vedere e farsi vedere, una diplomazia che si indossa. In breve, le “nuove vesti dell’imperatore” non sono una vanità, ma l’architettura visibile di un’idea di sovranità capace di includere anziché respingere.

 

 


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