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L’ateismo nella comunità musulmana, in Inghilterra

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A cura di @Ander Elessedil.

 

Un lungo articolo del Guardian affronta un argomento che dovrebbe essere d’attualità, ma di cui esistono pochi articoli.
La presenza di combattenti europei, di prima o seconda generazione, fra le file dell’ISIS e di altre formazioni jihadiste, è ben documentata; ma l’altro lato della medaglia, persone che hanno abbandonato la loro fede islamica per diventare atei, dov’è?

Andrew Anthony affronta l’argomento raccontando tre storie di tre ragazzi musulmani atei inglesi.

Sulaiman Vali è un kenyano-indiano proveniente da una famiglia molto religiosa. Suo padre è imam in una moschea deobandi, la branca radicale dell’Islam diffusa nel subcontinente indiano. Ha capito di aver perso la sua fede una volta abbandonata la famiglia per lavorare in un’altra città. Qui, confrontandosi con persone di altre fedi o atee, ha iniziato a mettere in discussione i precetti islamici, e cercando su internet informazioni che potessero guidarlo, leggendo per esempio Hawkins e Hitchens, ha capito di essere ateo.
Avrebbe mantenuto i suoi dubbi per sé, se non fosse che la sua famiglia gli aveva preparato un matrimonio combinato. Non potendo nascondere più a lungo i suoi sentimenti ha dichiarato il suo ateismo e la famiglia l’ha “disonorato”. Non parla più con nessuno di loro e, per l’intervista, ha scelto di non esplicitare dove vive. per sicurezza.

Vali has seen his mother just once for a few minutes four years ago. “She didn’t want to touch me,” he says. “She thought her God would be angry with her if she treated me kindly.”

Nasreen (nome di fantasia) è una manager 29-enne di origine bengalese.
Proviene da una famiglia non molto religiosa ma che rimane culturalmente musulmana. Quando aveva 15 anni seguì la sorella maggiore in un percorso di radicalizzazione favorito dall’incontro con il movimento Hizb ut-Tahrir. Chiese (e ottenne) dalla scuola che frequentava di utilizzare un lungo abito nero oltre al velo. Poi, con il passare degli anni, ha cominciato a mettere in discussione quel sistema di valori. E, anche lei da sola e cercando in rete, è arrivata ad essere atea. Al contrario di Sulaiman non ha detto una parola alla propria famiglia, anche per paura di ritorsioni verso di loro, non infrequenti nei paesi musulmani. Ha solo detto loro che non prega e non porta il velo.
Fra le molte difficoltà avute ve n’è stata una accademica. Nasreen è antropologa e la sua tesi l’ha scritta proprio sull’identità degli ex-musulmani. Il suo primo supervisore, uomo musulmano, ha cercato di dissuaderla dicendo che era “spazzatura”. Ha dovuto chiedere e ottenere un nuovo supervisore per poter continuare la sua ricerca. Per cui forse vincerà un premio accademico.

“I’ve had bouts of clinical depression,” Nasreen says. “The thing is, Islam teaches you to grow up with low self-esteem and lack of self-identity. Without the collective, you’re lost. You’ve been taught to feel guilty and people-pleasing as a woman, and you do that from a very young age. I kept thinking, ‘Why do I want to wear short skirts? That’s so disgusting!’ No, it’s not disgusting. It took me a long time to appreciate my sexuality and my femininity. There was a lot of stress. I lost my friends. You’re very lonely and you’re ostracised.”

Imtiaz Shams è un ragazzo bengalese cresciuto in Arabia Saudita.
Ha capito di essere ateo a 20 anni e ha fondato un’associazione, Faith for Faithless, per aiutare e supportare i musulmani che perdono la propria fede, ostracizzati dalle comunità di appartenenza e non accettati o capiti dalla società in cui vivono, per cui sono indistinguibili da un jihadista.

Too often, he believes, non-Muslims are unable or unwilling to see beyond the religious identity of Muslims. They are increasingly trained to understand religious needs but are frequently flummoxed by those who reject those needs.

Ciò su cui tutti concordano è il senso di solitudine che questi ragazzi provano, unito anche a una certa dose di paura per la loro incolumità fisica. Sono ostracizzati dalle comunità di appartenenza. E la società inglese è più a suo agio nel discutere dei jihadisti che degli atei musulmani.
Un punto sollevato è che molti musulmani si radicalizzano in Inghilterra, in cui vengono gettati nel calderone “musulmani” indipendentemente dalla loro cultura di riferimento. In questo modo si appiattiscono le differenze fra un marocchino, un bengalese o un iracheno rendendo molto più difficile il percorso per chi vuole affrancarsi dalle credenze della propria famiglia senza dover tagliare i punti con la propria cultura.

 

Immagine CC BY 2.0 di Dan Etherington da Wikimedia Commons


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