Su Jacobin Italia Ludovica Formoso, Tatiana Montella e Ivonne Panfilo, avvocati, discutono del 41 bis.
L’applicazione del 41 bis a un anarchico individualista, accusato di aver commesso una strage senza vittime né feriti, e la decisione di intraprendere uno sciopero della fame a oltranza hanno messo finalmente all’ordine del giorno la questione del cosiddetto «carcere duro» e costretto a chiedersi perché questo venga applicato al di fuori delle ipotesi per cui era stato ideato, ossia come strumento di lotta alla mafia.
Chiunque conosca approfonditamente la storia di questo paese sa che non si tratta della prima volta che una misura eccezionale, introdotta temporaneamente al fine di risolvere un’emergenza, senza dubbio grave e contingente, e limitata solo ad alcune categorie di soggetti, diventa norma inserendosi stabilmente nell’ordinamento e trovando un’applicazione sempre più estesa e ampia, ben oltre i casi per i quali era stata pensata. Gli esempi sono innumerevoli: dalle leggi dell’emergenza introdotte negli anni Settanta fino appunto all’intera legislazione antimafia.
È anche la storia del regime penitenziario di cui all’art. 41 bis II comma. Introdotto dopo la strage di Capaci del 1992, come misura eccezionale e temporanea, dopo alcuni decreti che ne prolungavano l’efficacia, è stato stabilmente inserito nel nostro ordinamento nel 2002 e la sua applicazione è stata estesa anche chi è accusato di reati con finalità di terrorismo, purché commessi con atti violenti.
Non a caso dal 2005 sono detenuti in 41 bis, nel silenzio più totale, i tre esponenti delle nuove Brigate Rosse Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, in un regime di detenzione dura che viene prorogato senza che vi siano evidenti prove che l’organizzazione di appartenenza sia ancora esistente e vitale.
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