A cura di @Yoghi (modificato).
Il New York Times (link alternativo) ha pubblicato un’inchiesta per fare luce sul fenomeno del lavoro in nero in Italia e sugli abusi che nasconde.
L’inchiesta parte da un appartamento di Santeramo al Colle (BA), dove, seduta al tavolo della cucina, una donna di mezz’età cuce giacche di lana da 2000 euro l’una per Max Mara. Il suo salario tuttavia è di appena 1 euro ogni metro di cucitura e impegnandosi al massimo riesce a cucire due giacche al giorno, senza guadagnare mai più di 24 euro a giacca.
Il lavoro, totalmente in nero, è assegnato da una fabbrica locale che lavora per i marchi più noti al mondo, per cui il lavoro a casa o in piccoli laboratori costituisce un’importante elemento per velocizzare la catena dei fornitori. Questo è vero, spiega il New York Times, soprattutto in paesi come il Bangladesh o il Vietnam, ma è avviene in Italia, sebbene in condizioni migliori.
Though they are not exposed to what most people would consider sweatshop conditions, the homeworkers are allotted what might seem close to sweatshop wages. Italy does not have a national minimum wage, but roughly €5-7 per hour is considered an appropriate standard by many unions and consulting firms. In extremely rare cases, a highly skilled worker can earn as much as €8-10 an hour. But the homeworkers earn significantly less, regardless of whether they are involved in leatherwork, embroidery or another artisanal task.
Secondo un articolo del Sole 24 ore, l’anno scorso il numero di lavoratori in nero ammontava a 3,7 milioni di persone.
Immagine da pixnio.
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