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Lingue che scompaiono

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Un articolo del Bo Live parla dei vari destini che possono accadere alle lingue. Alcune, come la lingua o i gruppi di dialetti parlati dai proto-indoeuropei nella loro espansione, si diffondono e si evolvono in nuove forme. Molte altre però scompaiono, quando chi le parla muore o smette di insegnarle ai propri figli: secondo l’UNESCO il 40% degli idiomi attualmente parlati nel mondo è a rischio di estinzione. E se è possibile “far risorgere” una lingua estinta, com’è capitato all’ebraico (che è stato trasformato dai Sionisti da lingua sacra della Bibbia a mezzo di comunicazione nella vita di tutti i giorni), queste sono però l’eccezione che conferma la regola. La scomparsa di una lingua ha gravi conseguenze: anche senza arrivare a pensare che la lingua determini il modo in cui pensiamo, come suggerito da Arrival, le lingue sono inestricabilmente legate alla cultura e al patrimonio intellettuali di chi le parla (basti pensare a tutto quello che molti popoli indigeni sanno sulle piante della regione dove vivono, e che trasmettono nel loro vocabolario).

Non ci sono ricette facile per fare sopravvivere una lingua. Come sintetizza Emanuele Banfi, intervistato dal Bo Live:

La vitalità di una lingua dipende solo in parte da politiche istituzionali: di fatto una lingua vive se viene usata, se una comunità la percepisce come efficace, se la trasmette, se la difende, altrimenti muore, anche quando viene inserita nei documenti ufficiali di un certo paese”.
Esiste una sinergia complessa tra due forze: da un lato le politiche istituzionali, dall’altro la vitalità interna delle comunità linguistiche: se una lingua è viva nei rapporti quotidiani, nella trasmissione intergenerazionale, nella scuola e nei media, allora può essere trasmessa ai parlanti più giovani e sopravvivere, se invece resta confinata a documenti ufficiali o usi simbolici rischia di fossilizzarsi, come è successo a tante lingue indigene, nominalmente riconosciute ma praticamente abbandonate e quindi dimenticate.


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