In un articolo pubblicato su Il Tascabile, Manolo Farci discute il concetto di mascolinità tossica ripercorrendone la storia.
[…] qualsiasi ricetta educativa che parlerà di mascolinità liberata farà passare un insieme di condotte specifiche come valori unanimemente giusti, dimenticando che quelle condotte sono sempre il risultato di habitus e stili di vita generati e consolidati all’interno di determinati gruppi sociali. Per cui, prima di dire ad un ragazzo, o ad un uomo, che può piangere, portare i capelli lunghi, interessarsi di poesia, essere sensibile e delicato sarebbe opportuno domandarsi se questo tipo di prescrizioni non finiscano semplicemente per imporre un proprio modello di comportamento. Un comportamento che magari può funzionare facilmente nel recinto del proprio ceto di appartenenza, ma che non necessariamente può essere assunto in maniera così spontanea all’interno di altri spazi sociali. Del resto, non è una novità che una mascolinità sensibile sia più spendibile se si appartiene al sottobosco di attivisti digitali della classe media creativa – composto di content creator, life coach, grafici pubblicitari o critici cinematografici – piuttosto che se si lavora come operai metalmeccanici in fabbrica o si cresce all’interno di comunità fortemente tradizionaliste.
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