In un articolo pubblicato su Doppio Zero, Gabriele Gimmelli racconta la storia di Miracolo a Milano, commedia neorealistica con componente fantastica realizzata da Vittorio De Sica nel 1951 e liberamente tratta dal romanzo Totò il buono di Cesare Zavattini.
“Sono pessimista ma me ne dimentico sempre”
(da una lettera di Cesare Zavattini a Franco Maria Ricci, 12 ottobre 1967)
In principio fu Antonio de Curtis. È a lui che Cesare Zavattini propone nel 1940 il primo soggetto di quello che sarebbe diventato, dieci anni più tardi e con la regia di Vittorio De Sica, Miracolo a Milano. Fervido ammiratore dell’attore napoletano, a 38 anni il vulcanico Za è in piena eruzione, con uno spettro di attività che va dalla letteratura ai periodici illustrati, dal fumetto al cinema. Il soggetto, intitolato Totò il buono e firmato a quattro mani con lo stesso Totò, viene pubblicato il 25 settembre sulla rivista “Cinema” (per onor di cronaca, va detto che il testo è opera del solo Za, che qua e là si serve di qualche spunto surreale suggerito dall’attore). Il più milanese dei film italiani nasce insomma dal più grande comico partenopeo.
A settant’anni dalla sua uscita Gianni Biondillo, architetto e scrittore, ha organizzato prima una proiezione pubblica poi ha curato la pubblicazione di un volume collettivo : Miracolo a Milano. Un omaggio a un film e a una città, da qualche tempo disponibile gratuitamente anche in PDF sul sito web delle Biblioteche Milanesi. Il libro permette di ricostruire la vicenda del film di De Sica da molteplici angolazioni.
Si racconta la genesi del testo dal racconto al romanzo per ragazzi che possono leggere anche gli adulti.
Con apparente noncuranza, Zavattini mescola Campanile e Bontempelli, satira sociale e tentazioni misticheggianti, le vignette di Mondaini e Steinberg (apparse su quel “Bertoldo” che proprio Za contribuì a fondare) e lo slapstick di René Clair e Charlie Chaplin. Il Totò zavattiniano fonda una baraccopoli ai margini di una grande città (Bamba), sgomina una banda di avidi speculatori determinati a sfrattare i suoi amici, ottiene da due angeli la facoltà di compiere miracoli per ventiquattr’ore, rischia di farsi corrompere dal potere, viene creduto morto, assiste da vivo al proprio funerale e infine, imbracciata una scopa, decide di partire in volo “verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno”.
Nel passaggio dalla pagina scritta alla pellicola la Milano autentica del dopoguerra prese il posto dell’immaginaria Bamba del romanzo
Una città che ancora porta i segni dei bombardamenti alleati e in cui proliferano autentici sfollati e autentiche baraccopoli, destinate di lì a poco a lasciare il posto alle “coree” riservate soprattutto alla popolazione meridionale in cerca di lavoro. Rimane comunque significativa e certo non casuale la scelta di allestire il set in uno degli allora numerosi terrain vague situati ai margini della città,
Su un piano più strettamente cinematografico si rievoca di come De Sica cercò di trasformare il libro in un film (titolo originario I poveri disturbano, diventato poi Miracolo a Milano per evitare censure) rispettando il romanzo di Zavattini e tenendo conto che Totò ormai non nutriva più alcun interesse nel progetto. Ci furono intuizioni geniali ma non sempre il regista poté realizzare ciò che aveva in mente.
Benché Zavattini avesse a un certo punto carezzato l’idea di un Miracolo a Milano a colori, De Sica sceglierà alla fine una fotografia in bianco e nero per ragioni economiche ed estetiche, affidando l’impresa a G.R. Aldo (al secolo Aldo Graziati), reduce da La terra trema (1948) di Visconti. Con le sue immagini contrastate, Aldo dà all’atmosfera festosa del soggetto zavattiniano una patina marcatamente espressionista, tanto da spingere il critico del “Corriere” Arturo Lanocita a parlare di “clima da stregoneria proprio delle saghe nordiche”. Malgrado gli aggiustamenti e le modifiche, Miracolo a Milano non riesce a nascondere la propria doppia anima: (neo)realismo e surrealismo, denuncia sociale e apologo fantastico (non a caso i titoli di testa scorrono sui Proverbi fiamminghi di Pieter Bruegel). Il risultato finale un po’ ne risente, fra bruschi cambiamenti di tono e qualche pesantezza di troppo. Colpa anche degli effetti visivi non sempre all’altezza,
Il film come tutti quelli di De Sica del periodo fu un fiasco commerciale, però fu stroncato anche dai critici, di ogni orientamento politico e culturale. All’estero invece ottenne grandi riconoscimenti.
In particolare furono i registi a tributare a Miracolo a Milano gli elogi più calorosi: da Renoir a Pudovkin, da Cocteau a Welles, tutti furono concordi sulla straordinaria carica innovativa del film,
Più tardi fu d’ispirazione anche per Spielberg, Nichetti, Forman e forse per Garcia Marquez.
Ed infine a sorpresa si scopre una inattesa attualità politico urbanistica
Forse, per cogliere davvero la grandezza di Miracolo a Milano, bisognerebbe interrogarsi sulla sua paradossale attualità. Possibile? Eppure, questo film che già ai suoi contemporanei appariva irrimediabilmente “fuori tempo” sembra indirettamente parlare alla nostra contemporaneità, e a Milano in particolare. In questa Milano divenuta ormai una vetrina dell’architettura urbana contemporanea, che spazio possono avere i marginali, gli ultimi, quelli che in città un tempo chiamavano barboni o lôcch, e oggi, più inclusivamente, senzatetto o homeless? I poveri disturbano, come avevano ben capito Zavattini e De Sica settant’anni fa. E così, in nome del “decoro urbano”, si moltiplicano per le strade gli sgomberi, dove le scope dei netturbini non fanno volare via nessuno, ma spazzano via masserizie e giacigli improvvisati.
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