Su Internazionale, Claudio Giunta racconta la sua gita a Venafro, un piccolo comune ricco di storia della provincia di Isernia, in Molise.
Il castello Pandone va visitato – anche se non vi interessano la storia, gli affreschi con i cavalli e, al secondo piano, un museo inaspettatamente ricco e curato con intelligenza che spazia dall’età paleocristiana all’ottocento – perché dalla cima del torrione si gode una vista unica su tutta la valle. I venafrani si lamentano del termovalorizzatore di Pozzilli, che guasta il paesaggio, ma basta non farci caso, concentrarsi sulla distesa di tetti, slarghi e vicoli che, per quanto fitti e ritorti, non riescono a nascondere l’antico tracciato romano, o sul bel Giardino della Contessa, a un passo dal castello, proprietà di un venafrano che ha fatto fortuna in America ma che, si dice, torna spesso in paese, e quando torna apre, riceve, ospita i concittadini, e comunque anche da lontano sovrintende alla cura del giardino.
A un paio di chilometri, lungo la statale 85, c’è una spianata di pietra candida, luccicante sotto il sole, che guardando meglio sono tante pietre e tante croci bianche, decine e decine di croci disposte in bell’ordine, simmetricamente, come succede nei cimiteri di guerra, quando le tombe si scavano tutte assieme. È il cimitero dell’esercito francese. Qui, nel 1944, infuriò la battaglia tra gli alleati che risalivano l’Italia e i tedeschi che resistevano. Il 15 marzo i bombardieri americani scambiarono Venafro per Cassino e la sommersero di bombe, uccidendo decine e decine di persone. Tra queste molti civili, pochissimi tedeschi, molti soldati inglesi e francesi presi per sbaglio, e tra i francesi soprattutto maghrebini reclutati nelle colonie, e anche qualche immigrato italiano in Francia. Tanti altri morirono un po’ più tardi, tra aprile e maggio, finché durò la resistenza tedesca sulla linea Gustav. “Mort pour la France”, ripetono le lapidi: Kolalbaye, Nadjira, Yerikian Marouk, Georges Marianini, Michel Hernandez…
Immagine da Wikimedia.
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