Dall’introduzione delle primarie per la scelta del candidato alle presidenza USA, lo schema tanto in campo democratico che in quello repubblicano era il solito: emergeva il candidato (senatore o ex governatore) più inclusivo, quello che riusciva a fare la miglior sintesi tra le varie aree del partito. Il termometro era il numero e la qualità degli endorsement, più un candidato ne otteneva, maggiori erano le possibilità di vittoria. Questa continuità di candidati approvati dall’establishment aveva ispirato il libro The Party decide.
Tutto ciò è saltato nel 2016 in campo Repubblicano, non ci fu nessuna indicazione netta, e si parlò di broken party o dell’equivalente dello stato fallito, Trump vinse e si prese tutto il partito, anzi lo colonizzò proprio.
Ne parla Derek Thompson sull’Atlantic, notando che i democratici nel 2020 potrebbero trovarsi nella stessa situazione con Sanders o Bloomberg, cioè un candidato che sino a poco tempo fa non era iscritto al partito e che è fuori dalla loro tradizione politica e che non vanta molti endorsement. Anche i Dem quindi sono quindi ormai un broken party.
Come è potuto succedere? Thompson prendendo ispirazione da un saggio che dimostrava di come la religione sia in declino ma che al contempo le congregazioni più rigorose siano sempre più forti, si chiede se la stessa cosa non stia accadendo anche in politica.
Immagine da Flickr.
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