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Quel che resta della macronie

Quel che resta della macronie

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A pochi giorni dalle elezioni presidenziali francesi, Francesco Massimo ripercorre su Jacobin Italia i cinque anni di Emmanuel Macron all’Eliseo.

Se non fosse il presidente in carica, sarebbe difficile considerarlo un candidato. In questa campagna elettorale Macron ha brillato per la sua assenza. Insediato al vertice dello Stato, Macron ha sfruttato il suo ruolo istituzionale per proporsi come il garante della continuità e della stabilità. Una rappresentazione della propria figura quasi regale, che punta a imporre la sua rielezione come un dato scontato, ordinario. E così Macron è stato l’ultimo a ufficializzare la sua candidatura e non ha perso occasione, in particolare la sua investitura come Presidente di turno dell’Unione europea, per disertare il dibattito elettorale e porsi al di sopra di esso. Le sue prese di parola televisive non sono state scomputate dal tempo massimo che ogni candidato ha a propria disposizione perché in quelle occasioni, messaggi alla nazione sulla pandemia, messaggi alla nazione sulla guerra, Macron parlava in qualità di presidente-monarca e chef de guerre.

Ovviamente questa strategia comporta anche dei rischi. In primis smobilitare il suo elettorato; in secondo luogo, infastidirlo addirittura, dando per scontata la propria rielezione. In ultimo, lo scandalo appena emerso delle fatture milionarie della società di consulenze McKinsey, accusata di evasione fiscale, che suggerisce l’esistenza di rapporti opachi e il traffico di influenze fra le alte sfere dell’Eliseo e i vertici dell’economia e della finanza. Così, incalzato dagli avversari e pressato dalle inquietudini dei suoi, Macron ha dovuto prendere le necessarie contromisure e ha cominciato a giocare la sua carta favorita: la minaccia di una vittoria di Marine Le Pen. Come nel 2017 l’aut aut è: «o me, o l’estrema destra». Nel 2017 funzionò, ma la solidità del progetto macroniano si è dimostrata ben presto illusoria.


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