Su suggerimento e a cura di @i.c.e.
L’ex Segretario Generale della NATO ed ex Primo Ministro danese Anders Fogh Rasmussen analizza in un libro appena pubblicato il ruolo degli USA sullo scenario mondiale. Gli Stati Uniti, scrive Rasmussen, sono l’unico paese al mondo ad avere ampie risorse, una vasta popolazione, accesso a due oceani e buoni rapporti con le nazioni immediatamente confinanti. Questo gli consente di potersi permettere di scegliere se essere policemen, cioè di intervenire attivamente nel mondo laddove scoppiano crisi, oppure se essere gatekeepers, cioè preferire l’isolazionismo e disinteressarsi di quanto non costituisca una minaccia diretta al suolo americano.
Gli attuali candidati alla Presidenza USA incarnano in pieno queste due opposte visioni, con Clinton che rivendica in pieno la responsabilità statunitense in quanto unica superpotenza e con Trump che invece sostiene che agli USA converrebbe abbandonare tale ruolo e concentrarsi sui problemi interni.
Rasmussen rifiuta la visione isolazionista, sostenendo che gli USA e il mondo hanno tutto da guadagnare nel mantenere l’ordine disegnato da Truman nel secondo dopoguerra, ordine che dopo gli orrori di due conflitti mondiali ha garantito 70 anni di relativa pace e prosperità, e basato su libero commercio, non-proliferazione nucleare, trattati di mutua difesa, e basi militari dislocate oltremare. Sostiene che l’amministrazione Obama si è contraddistinta per un certo grado di isolazionismo, e che le azioni russe in Ucraina e Siria sono un risultato di tale politica. L’impegno americano, conclude, è particolarmente importante in questo momento storico.
Ne parla Uri Friedman sull’Atlantic, offrendo nello stesso tempo alcuni argomenti che vanno contro la visione di Rasmussen: per esempio, la Russia si era mostrata aggressiva già nel 2008 invadendo la Georgia, quando c’era alla Casa Bianca un Presidente decisamente non isolazionista. Se Rasmussen sostiene che i guai in Iraq e Libia sono dovuti ad una mancata pianificazione post-bellica, Friedman risponde che quegli interventi militari sono stati una cattiva idea in partenza.
Anche la visione di un mondo in fiamme viene messa in discussione: citando lo psicologo Stephen Pinker e il Presidente colombiano Santos, Friedman nota che la quasi totalità dei conflitti armati è limitata ad un’area che va dalla Nigeria al Pakistan e che 5 esseri umani su 6 vivono in pace, anche se questo sarebbe comunque un risultato di quell’ordine mondiale che, secondo Rasmussen, sarebbe in pericolo se gli USA smettessero di esserne i garanti.
Immagine da Wikimedia Commons
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