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L’allucinazione e il senso della vita: un nuovo sguardo sulle malattie mentali

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Justin Garson, professore di filosofia all’Hunter College, parla su lla rivista Aeon delle malattie mentali e di un nuovo paradigma psichiatrico per capirle.

L’articolo comincia con un aneddoto personale, il delirio del padre di Garson che viveva i suoi giorni nello squallore di un monolocale, passando il tempo “parlando” con Dio e l’attrice Catherine Deneuve.

Nel 1991, poco dopo aver iniziato l’università, andai a trovare mio padre nel suo monolocale ed ebbi una rivelazione che continua a plasmare la mia carriera accademica ancora oggi. Seduto sul suo letto e con una sigaretta in mano, mi disse: «Justin, so che Dio e Catherine non sono reali. So che non mi parlano davvero. Ho solo una forte immaginazione. Ma non so cosa farei senza di loro. Non ho nulla. Non ho una famiglia vicina. Non ho un lavoro. Non ho una donna. Non ho soldi, a parte la pensione. Sono l’unica cosa che mi fa compagnia».

Le allucinazioni auditive e il delirio paranoide avevano un significato, un’utilità — o almeno, supplivano un bisogno — nella vita del padre, mascherando e rendendo sopportabile un dolore profondo. Garson paragona queste manifestazioni alla febbre: un tempo considerata essa stessa il malanno da curare, oggi sappiamo che è un sintomo e un modo che il corpo ha per difendesi.

Come verrebbero “riclassificate” alcune malattie secondo questo cambio di paradigma? Garson fa alcuni esempi: in alcuni casi la depressione sarebbe un segnale che «la nostra vita non funziona» e uno sprone a fare i necessari cambiamenti, considerazioni simili si possono fare per l’eziologia del disturbo borderline. Per la dislessia Garson propone proprio l’abolizione della parola «malattia», considerandola semplicemente un modo diverso per l’apprendimento.

Questo paradigma, chiamato psicologia evoluzionista, non può spiegare tutto, avverte Garson (per esempio alcuni tipi di depressione sono causati da un declino cognitivo, quindi non “servirebbero” a nulla), ma può essere uno stimolo interessante sia per chi studia questi fenomeni sia per l’aspetto clinico. Come intendiamo la malattia si irradia sull’aspetto etico di come consideriamo il paziente:

Al contrario, ci sono nuove prove preliminari del fatto che considerare la depressione come un segnale funzionale del fatto che qualcosa nella vita non sta funzionando potrebbe portare a migliori risultati terapeutici e a una riduzione dello stigma. Un ricercatore che studia questo aspetto è lo psicologo clinico Hans Schroder. Diversi anni fa, Schroder decise di presentare ai suoi pazienti il punto di vista della psichiatria evolutiva sulla depressione. E se la loro depressione stesse “cercando di dire loro qualcosa”? In seguito, notò che le cose cominciarono a cambiare. Alcuni divennero più entusiasti della terapia. Alcuni sentivano, per la prima volta nella loro vita, un barlume di speranza. Smisero di vedere la depressione come un difetto cerebrale irreversibile e iniziarono a vederla come una risposta coerente a una crisi.


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