Tradurre è sempre tradire? Probabilmente sì, e forse è non solo inevitabile ma anche auspicabile, per adattare il testo originario alla cultura della paese in cui viene tradotto.
Paola Mazzarelli su Rivista Tradurre e Geneva Abdul sul Guardian intervistano due traduttrici, Elisabetta Bartuli e Jhumpa Lahiri (traduttrice e autrice), a proposito del loro lavoro e del ruolo della traduzione.
Elisabetta Bartuli racconta della sua infanzia in Egitto, in una famiglia in cui la lingua comune era il francese, e della sua passione per la lettura che l’ha portata prima a scrivere recensioni per “L’indice”, poi a dedicarsi alla traduzione dall’arabo.
La prima domanda è di prammatica. Come comincia la tua vita di traduttrice dall’arabo?
Come ho cominciato? Ho cominciato leggendo. Sembra banale, ma la lettura è la base, la vera base di tutto. Ho cominciato a tradurre perché ero una forte lettrice. Leggere era la mia grande compagnia. Mi piaceva tanto perché fondamentalmente mi permetteva di essere nomade, pur restando sedentaria.
Per quanto riguarda le traduzione dall’arabo all’italiano, riporta:
Quindi l’unico Nobel che scriveva in arabo lo abbiamo letto tradotto dall’inglese. Non tutto, sia chiaro. Molti suoi libri no, ma più di una decina sì: dipende dalle scelte compiute dalla casa editrice italiana. Forse è andata anche bene così, nel senso che quando si è cominciato a tradurre, vista la mancanza di traduttori professionisti dall’arabo, forse si è sentito che la traduzione dall’inglese era più fluida, scorreva di più, era più leggibile. È dura da ammettere, però in realtà è stato un po’ così. Certe traduzioni dall’arabo sono più letterali che letterarie, mancano di riflessione e di omogenità, sono ostiche da leggere – in sostanza, sono talmente pesanti che non ti possono appassionare.
Inoltre, a suo dire, abbondano ancora nell’editoria italiana le traduzioni accademiche dall’arabo, ovvero tesi di laurea che sono state pubblicate per il grande pubblico. La traduttrice, poi, aggiunge il suo pensiero sul continuo dibattito sull’invisibilità del traduttore:
Sì, la fola dell’invisibilità… Lo si vede benissimo quando c’è una traduzione ponte di mezzo: se hai un testo tradotto da una traduzione inglese, quando vai a rivedere l’originale arabo, ti accorgi che nel testo italiano c’è una voce in più. Perché c’è anche il traduttore inglese. Anche lui ha fatto delle scelte, ha preso delle decisioni. E tu su quelle fai le tue scelte. Non le fai più sul testo arabo. C’è un passaggio in più, cioè una voce in più. Resta il fatto che quelle scelte, non le puoi fare a caso.
Jhumpa Lahiri, invece, discute del suo recente libro “Racconti romani” (scritto in italiano) e del suo lavoro di traduttrice (dei romanzi di Domenico Starnone e anche dei suoi stessi romanzi, che lei traduce dall’italiano all’inglese):
You’ve previously said translation for you is a metamorphosis, allowing a work to be reborn. Do you see these stories as being reborn in English form?
I think translation is… an act of radical change, an act of reshaping and reforming a text, and in some sense it becomes unrecognisable from what it was once, though its essence remains the same.
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