A cura di @divodivo (modificato).
In questi giorni sta girando molto il video di uno spot amatoriale di una banca piuttosto goffo e grottesco. Il video e soprattutto la direttrice della filiale – la protagonista e probabile ideatrice del video – sono diventati in breve tempo un fenomeno del web con svariate parodie e prese in giro, nonostante il video originale non fosse stato realizzato per essere reso pubblico.
In un post su Facebook, Selvaggia Lucarelli esprime tutte le sue perplessità sulla vicenda, domandandosi se sia giusto ridicolizzare una persona la cui azione non sarebbe dovuta essere diffusa e se questo non sia altro che una forma di cyberbullismo di massa:
Katia pensava che la sua platea fossero i suoi colleghi, durante la conferenza. Si fidava (lei sì) della sua banca. E no, probabilmente neppure lo immaginava che quel video sarebbe potuto finire sul web. Nessuno ti avvisa, della crudeltà del web.
In un suo pezzo per Il Post, Enrico Sola si interroga sulle colpe dell’aziendalismo e della cultura corporate:
È bene tenerlo a mente: quei minuti di imbarazzo raggelante con gli impiegati costretti a umilianti canzoncine e balletti non sono nati spontaneamente, ma sono frutto di un’iniziativa in cui Intesa Sanpaolo chiedeva, per qualche ragione, ai suoi dipendenti di registrare e condividere esibizioni simili.
Parliamo quindi dell’azienda che ha commissionato i video trash, non di chi ha obbedito all’ordine di rendersi ridicolo.
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