In un articolo apparso su novecento.org, Valentina Pisanty si interroga su un paradosso: «negli ultimi vent’anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore».
Per cercare di comprendere come si è arrivati a questo punto, Pisanty ricostruisce il modo in cui si è costruita e istituita la memoria della Shoah a partire dagli anni Sessanta. La storia della trasformazione da patrimonio individuale a obbligo universale passa per le politiche della destra ebraica americana, per quella israeliana dietro il processo Eichmann, per la spettacolarizzazione avviata dalla mini-serie Holocaust dell’NBC, per le esigenze di unificazione culturale dell’Unione Europea dopo l’ingresso dei paesi dell’ex blocco sovietivo.
In questa storia cristallizzazione retorico-spettacolare e usi pubblici strumentali, diversi da paese a paese, si intrecciano:
la banalizzazione era il prezzo da pagare affinché la memoria del trauma trascendesse i confini ristretti del gruppo vittimizzato e si propagasse verso il centro dell’immaginario collettivo, stilizzandosi man mano che i ricordi pulsanti dei testimoni si cristallizzavano in motivi narrativi e categorie concettuali ad ampio spettro, in grado di addensare attorno a sé il consenso di una comunità allargata.
Con l’eccezione della Germania, unico caso noto – per forza, si dirà – di appropriazione autocritica della Memoria, tutti gli altri usi pubblici dell’Olocausto rispondono alle esigenze delle proprie autonarrazioni specifiche: celebrare la nazione risorta dalle ceneri (Israele), chiamarsi fuori dalle fasi peggiori dello sterminio (Italia e Francia), esaltare il proprio ruolo di liberatori (Usa e Gran Bretagna), insistere sulla rievocazione dei crimini nazisti per schermare il ricordo di altri crimini nei quali si è più colpevolmente implicati (Usa).
Pisanty non si limita a ricostruire le tappe di questo processo, ma alterna il racconto alla riflessione su alcuni nodi cruciali del rapporto tra memoria, storia e politica: dalla «natura strategica», «strumentale agli interessi e alle sensibilità di chi in quel momento ne detiene il soft power» propria di ogni memoria collettiva, alla contraddizione che nasce dell’aver ancorato un monito etico universale a un costrutto culturale fondato sulla memoria, più che sulla storia.
Laddove il nocciolo di ogni discorso universale è Questo vale per tutti, il punto di ogni memoria è Questo l’ho vissuto solo io. Combinati insieme, i due concetti producono uno strano ircocervo: Questo l’ho vissuto solo io e quindi vale per tutti. Ovvero: proprio perché la mia esperienza (o quella del mio gruppo) è solo mia, proprio perché sono l’unica titolare della mia (della nostra) memoria, le rivendicazioni particolari che avanzo sulla scorta di quell’esperienza e di quella memoria vanno riconosciute universalmente.
[…] Posto che la vita delle culture è fatta di – ed è resa possibile da – una serie incessante di perdite, amnesie, negligenze e distruzioni deliberate, pena il sovraccarico di informazioni che impedisce a nuove forme di vita di prendere piede in un ambiente saturo di vestigia del passato (si veda l’argomento di Nietzsche sui rischi della memoria ipertrofica), che cosa fa sì che alcune memorie particolari siano ritenute più meritevoli di altre di sottrarsi ai meccanismi fisiologici della dimenticanza? Che cosa, in altre parole, dovrebbe indurre la comunità mondiale a intervenire di peso per contrastare, ma solo in alcuni casi, l’azione erosiva del tempo?
Immagine Di Christian Michelides, CC BY-SA 4.0, Collegamento.
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