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Chi è il misterioso re di Hong Kong?

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L’Indiscreto pubblica un brano di un libro su Hong Kong scritto da Luisa Lim, figlia di un’inglese e di un cinese della diaspora, cresciuta nella Hong Kong britannica.

In questo brano l’autrice parla del cosiddetto “Re di Kowloon” (Tsang Tsou-Choi), un graffitaro malato di mente che si era autoproclamato re e i cui graffiti diventarono una presenza comune e famigliare per gli abitanti della città.

Un altro aneddoto narra che Tsang fu investito da un’auto a metà anni Cinquanta, mentre passeggiava nei pressi del tempio dei Signori delle Tre Montagne a Ngau Chi Wan. Quando riprese i sensi, la prima cosa su cui posò gli occhi annebbiati furono le parole  «nazione» e  «re», scritte in tratti spessi e squadrati su una lanterna all’esterno del tempio. I due caratteri divennero la chiave di volta delle sue muraglie testuali, torreggianti sopra tutti gli altri. Insieme scandiscono l’appellativo 國王, «Re della Nazione», benché talvolta si firmasse 國皇, «Imperatore della Nazione». Per tale motivo, sebbene in inglese si parli di lui come «the King of Kowloon», il suo titolo cinese è sempre stato «l’Imperatore di Kowloon».

Dopo essere stato rilasciato dal reparto psichiatrico del famigerato ospedale di Castle Peak, il Re di Kowloon proseguì la sua campagna graffitara:

Della sua sanità mentale si poteva forse dubitare, ma non della coerenza dei suoi metodi. «Tutti gli imperatori cinesi», affermava, «furono calligrafi.» Nel 1970 comparve per la prima volta in un quotidiano locale, in cui si menzionavano i «decreti imperiali» da lui impressi sugli spazi pubblici.

Il riconoscimento artistico, tuttavia, tardava ad arrivare: la sua prima mostra, nel 1997, fu percepita dall’ambiente artistico come un oltraggio e una farsa e non vendette nemmeno un pezzo. Dopodiché il Re era di nuovo in strada a marcare il proprio regno. Solo quando fu anziano qualcosa cominciò a muoversi.

Nel 2003 fu il primo hongkonghese a rappresentare il territorio alla prestigiosa Biennale di Venezia. Girò cammei per film locali, si scrissero su di lui poesie e canzoni, e la sua fetida maglietta autografata comparve nelle raffinate sale d’asta di Sotheby’s a Londra. La sua calligrafia storta e claustrofobica strisciò giù dai muri per accalcarsi su lenzuola, biancheria, sacchetti della spesa e infine su bottiglie di whisky, t-shirt, arredi di Starbucks e scarpe da ginnastica firmate, divenuta ormai essa stessa un prodotto commerciale. Tuttavia, il Re restò inflessibile riguardo al proprio ruolo. Nel 2005, in una rara intervista, dichiarò: «Dovrebbero soltanto restituirmi il trono. Io non sono un artista. Sono il Re e basta».

In tutto questo l’autrice si sofferma sull’arte della calligrafia e sulla sua forte rilevanza culturale:

L’inchiostro presenta un’altra serie di difficoltà. Lo si acquista sotto forma di barrette compatte dal tipico odore di fuliggine, che vanno macinate con la giusta dose d’acqua: troppo poca e l’inchiostro risulterà spesso e colloso; troppa e i toni color ebano sfumeranno in grigio e inzupperà la pagina, sottile come carta velina, rendendola un ingestibile acquitrino. La calligrafia è una pratica artistica severa: per tracciare un carattere perfetto, ogni elemento dovrà esserlo. Qualsiasi errore è indelebile, senza spazi per ripensamenti, seconde occasioni o reti di sicurezza; la debolezza non si può nascondere né mascherare. L’ascetica semplicità di questa forma d’arte è eccezionalmente ostica per i neofiti.

L’autrice, infine, sfrutta la storia del Re di Kowloon per inserirvi numerose divagazioni sulla propria famiglia mista e sull’identità meticcia, caratterizzata dalla transitorietà, di Hong Kong.

Quando Singapore fu invasa dal Giappone, mio padre fu costretto a dare alle fiamme il lavoro della vita di mio nonno. I giapponesi stavano prendendo di mira gli intellettuali, e la mia famiglia dovette sbarazzarsi di ogni prova della propria educazione. Al figlio più giovane, così piccolo da essere insospettabile di qualsiasi sotterfugio, fu affidato il compito di appiccare il falò. L’unico frammento sopravvissuto delle opere di mio nonno è una singola poesia di venti caratteri, così complessa che nessuno è mai riuscito a decifrarne l’esatto significato. La sua pietra da inchiostro finì con l’essere oggetto di una sgradevole disputa fra mio padre e uno dei miei zii: guidato da sbiaditi ricordi del proprio genitore, mio padre ha sempre sognato di passare la vecchiaia come un intellettuale d’altri tempi, circondato dai «quattro tesori dello studio» – carta, pennello, inchiostro e pietra da inchiostro – intento a tracciare caratteri sublimi con il pennello che accarezza dolcemente la carta di riso, come un barcaiolo che scivola sul pelo dell’acqua nella calura estiva.


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