Un articolo di Lidia Baratta su Linkiesta propone alcune riflessioni sul mercato del lavoro, alla luce di quanto emerge dall’ultimo rapporto Randstad WorkMonitor.
Il lavoro viene definito “importante” solo dal 72% degli italiani (in calo di 5 punti rispetto a un anno fa), e si definisce “motivato” solo il 60% (con un calo di addirittura 9 punti), tanto che la giornalista si chiede se si siamo entrati in quella che il New York Times ha definito l’era dell’anti-ambizione.
Nel rapporto si vede però che in realtà i nuovi entrati nel mercato del lavoro sono ambiziosi, ma poi con il tempo l’entusiasmo va spegnendosi scontrandosi con capi mediocri e con le difficoltà nell’ottenere avanzamenti di carriera e aumenti di retribuzione (o anche solo rinnovi contrattuali).
Nell’articolo viene citato anche un rapporto di Censis e Philip Morris che considera i cambiamenti nella gerarchia tra lavoro e vita privata che sono emersi a seguito della pandemia.
Insomma, davanti a un mercato che spesso sembra bloccato sul fronte dei salari e delle promozioni, anche chi prova a «spingere» poi si stanca. Dopo la pandemia, molti hanno riconsiderato il valore del tempo e la gerarchia tra lavoro e vita privata. E se non ne vale la pena, meglio lavorare di meno e restare dove sto.
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