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L’onda lunga del trauma migratorio

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Su Il Tascabile si parla di un aspetto su cui non cade spesso l’accento riguardo alle questioni migratorie: la salute mentale di chi si vede costretto a vivere nell’incertezza, una volta deciso di tentare la fortuna fuori dalla patria.

Usman ha lasciato la Nigeria nel 2016 ed è arrivato in Italia dopo quattro anni; adesso vive a Castelfranco Veneto in uno dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) che, a dispetto del nome, costituiscono la modalità principale di accoglienza in Italia.

La sua richiesta di asilo è stata rifiutata e ha chiesto un riesame. Ma ultimamente ha iniziato a sentirsi sempre peggio, ha dolori fisici e disturbi del sonno. I ricordi del viaggio si sovrappongono alle angosce del presente. “Non è stato facile arrivare fin qui. Ho visto molti dei miei compagni morire. È solo grazie a Dio che ce l’ho fatta e spero che non mi abbandoni proprio ora, spero che mi aiuti ad avere i documenti, questa è la mia unica preoccupazione. Che posso fare senza documenti? Questa situazione mi fa sentire inutile”.

Che la rotta di arrivo sia quella balcanica, dove capita di dover vivere e nascondersi nei boschi per superare le frontiere senza venire fermati, oppure quella mediterranea, dove si intensifica sempre di più la tratta di donne che alimentano il mercato della prostituzione, in entrambi i casi il percorso di arrivo in Europa può lasciare ferite difficili da rimarginare. In Italia, poi, il soggiorno prolungato nei CAS (anche 4-5 anni) può acuire la situazione.

Roberto Beneduce, psichiatra e professore di antropologia culturale all’Università di Torino, parla di individui “resi fragili dalla vulnerabilità sociale ed economica, dalla precarietà del loro statuto giuridico, vittime di quelle discriminazioni e di quei pregiudizi tipici della transizione a una nuova cultura”. Questa transizione impone un costo non solo identitario (limitare fino a tradire i capisaldi della propria cultura originaria), ma anche umano e morale: molti ragazzi migrati in Europa hanno studiato per anni nei loro paesi di origine, dove, in tempo di pace o in assenza di regimi autoritari, avrebbero potuto vivere una vita economicamente dignitosa. In Europa invece si rifugiano nel lavoro in nero, soprattutto nel settore della ristorazione, con mansioni come lavapiatti o camerieri. Ottenere documenti regolari, imparare una nuova lingua e nonostante questo scegliere il lavoro nero fanno parte di una traiettoria ordinaria per chi migra in Europa, uno scarto del valore della propria vita in cui, nel migliore dei casi, ci si ritrova a vivere da cittadini di serie B.


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