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Ludwig Wittgenstein: un mistico mancato?

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Su l’Indiscreto, Colin Wilson racconta la vita e l’evoluzione del pensiero di Ludwig Wittgenstein.

La poliedricità del filosofo austriaco è ben nota: Wittgenstein iniziò la sua carriera accademica come ingegnere — addirittura brevettando qualche invenzione nel design degli aeroplani — prima di occuparsi di Logica. Anche durante la scrittura del Tractatus e delle Ricerche si dedicò alla musica (era un discreto clarinettista) e alla scultura.

Se queste qualità sono riconosciute e analizzate dagli studiosi di Wittgenstein anche rispetto allo svilupparsi del suo pensiero, lo stesso non si può dire — secondo Wilson — riguardo ai lati più drammatici e intimi della sua esistenza: in particolare l‘insoddisfazione verso se stesso, verso un mondo accademico che reputava artificiale ma soprattutto insoddisfazione verso le sue stesse ricerche e gli strumenti di indagine che aveva a disposizione.

Nel Tractatus effettivamente leggiamo:

Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare via la scala dopo essere asceso su essa.)

Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.
Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

Questo «invito alla trascendenza» per Wilson assume caratteri mistici: Wittgenstein era un «creatore manqué», consapevole dei limiti del pensiero emotivamente immaturo e per questo sempre alla ricerca di nuovi modi di espressione; questo in contrapposizione a quelli che Wilson chiama «scolari intelligenti» (come Huxley e Russell), brillanti quanto incompleti.

Se [Wittgenstain] fosse passato dal Tractatus a scrivere I fratelli Karamazov, a disciplinare se stesso fino a raggiungere il samādhi come Ramakrishna, a sforzarsi di raggiungere uno stato di ricordo di sé, come Uspenskij, avrebbe seguito la strada dell’autoespressione. Egli sapeva, con la stessa chiarezza di Gurdjieff, che l’unico scopo della conoscenza è essere qualcosa di più.

Estraneità quindi, qualità che pervade l’opera di Wittgenstein eppure in essa non può che rimanere incompiuta:

L’outsider è l’uomo che desidera ardentemente un ritorno agli standard antichi, gli standard che riconoscono che l’intelligenza è solo a uso dell’intelletto, che la saggezza invece è un insieme che comprende intelligenza, emozioni e corpo. […]

Ma lo stesso Wittgenstein fallì perché non riuscì a resistere alla tentazione dell’intelletto. L’intelletto non lo soddisfaceva mai completamente ed era sempre irrequieto, eppure doveva tornare a filosofare, ad analizzare, perché era la via a cui la sua mente opponeva meno resistenza.

Immagine: NC Mallory, Wittgenstein, da Flickr.


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