Le quarantene riportano la sedia al centro della vita, insieme alle loro appendici, i tavoli. Entrambi appendici della mente. Se è vero che la rivoluzione francese ha democratizzato le sedie, è anche vero che nella civiltà contadina erano scaldate da «donne, anziane e bambini», soggetti soltanto nelle emergenze. L’uomo stava in piedi, lavorava in piedi. Nell’esplosione demografica economica e psicologica del secondo dopoguerra, la sedia ha accompagnato l’avanzare del diritto allo studio: l’infante sulla sedia impara a controllare gli impulsi motori, le sincopi dell’avventura, e inizia a pensare. A riflettere sulla scissione dell’Io nel tempo che passa; ai rapporti algebrici, alle geometrie del mondo fisico e al ritmo del linguaggio; alla morte.
Scrive Gadda che «la materia è la memoria logica», la premessa su cui lavora ogni impulso: e qual è il destino allora di questa memoria logica, se si smaterializza? Già prima dell’internet delle cose, gli oggetti (le cose) non erano chiusi nei bordi, erano reti di relazioni, catene di cause e conseguenze. Gli oggetti come soglie mobili tra passato e futuro: si può decidere da che parte andare, secondo necessità.
Si può vivere l’aspettativa, cercando di capire che cosa hanno significato, da dove arrivano; o vivere l’attesa, cercando di aspettare quel che significano. Guardati intorno e dividi tra aspettativa e attesa: poi scegli, di giorno in giorno, da che parte andare.
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