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Michelangelo

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Venerdì tornando dalle spese ho allargato la curva che mi riporta a casa e sono passato di fronte all’hotel Michelangelo, dove a Milano da lunedì 30 marzo vengono accompagnate persone positive al coronavirus (o negative, da monitorare) che non possono vivere la quarantena nella loro casa. Per varie ragioni, comprese quelle di natura sociale. Possono essere militari che dormivano in camerate da otto persone e un solo gabinetto, o personale sanitario, ma anche donne e uomini abituati da anni a micro redditi e seri disagi abitativi.

Camminando fino all’hotel, per l’ennesima volta l’ammirandolo dal basso verso l’alto, di nuovo ho fallito nel contenerlo con lo sguardo; ci sono delle serate invernali, non poche, in cui la pasta di foschia e tubi di scarico impediscono di vederne la cima. Il palazzo allora, così plastico, la sua tinta ruggine e il fondo grigio-violetto ricorda una scenografia da cinema espressionista.

Fuori dall’hotel c’era un uomo solo, appoggiato a un palo segnaletico inutile da settimane, chinato a recuperare delle chat. Ci siamo salutati e gli ho chiesto se per caso lavorava lì. Si chiamava Luigi ed era uno dei due responsabili della cooperativa socio-sanitaria che in questi giorni sta gestendo l’hotel. L’ho capito solo quando me l’ha raccontato: dieci giorni prima avevo incrociato una sua intervista con Barbara D’Urso.

Chiuse al Michelangelo si trovano persone che non hanno mai dormito in un hotel. “Magari ti raccontano del viaggio di nozze, di quarant’anni fa… e ti chiedono come accendere l’aria condizionata”. All’improvviso si trovano di fronte a una televisione sottile come un’ostia, la fibra ottica, un letto sproporzionato e il bagno in camera, con una vasca idromassaggio e la sua pulsantiera babilonese.

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