A cura di @Gattone e @Chi.
The Globalist riporta che L’ANPI di Milano ha difeso la statua di Montanelli. In un articolo del 2007, il Sole 24 Ore, recensendo un libro sull’esilio svizzero di Montanelli, Gerbi e Liucci ricordava come il giornalista avesse anche esagerato la sua condotta antifascista:
Nel carcere di Gallarate non è mai stato condannato a morte dai Tedeschi. Negli archivi fascisti non esiste alcun dossier a lui intestato. Essenziale è stato il ruolo del generale Graziani nell’alleggerire la sua situazione in prigione […] Il 29 aprile del ’45 era a Berna, non a Milano, clandestinamente, per vedere il duce e la Petacci appesi per i piedi a piazzale Loreto. E via dicendo. Per tutta la vita […] ha raccontato a modo suo il periodo svizzero, facendo sì che l’arresto, il carcere e l’esilio acquistassero rispettivamente una mitica aura di militanza antifascista.
Sul suo blog, Luca Sofri espone il suo punto di vista sul senso delle statue pubbliche.
Quando qualcuno decide che qualcun altro meriti una statua, fa un’operazione di enorme semplificazione: decide cioè di prendere la complessità e varietà di una vita piena di accadimenti, sfumature, contraddizioni, cambiamenti, che a loro volta saranno analizzati, giudicati, considerati in modi diversi al cambiare dei tempi, e farne un tutto sommato piccolo oggetto statico e rigido dal significato astratto per celebrare uno o qualcuno di tutti quegli aspetti parziali. Ovvero di farne un simbolo, che per definizione è un simbolo, come il tricolore lo è per la millenaria storia dei popoli di una enorme penisola, o il pallino in alto lo è per la temperatura, eccetera. I simboli servono a indicare rapidamente e facilmente una cosa: sono un sacrificio, un compromesso, una scorciatoia. Meno si usano, per questo, meglio è: ma hanno delle loro utilità, e le nostre culture e psicologie ne hanno bisogno.
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